Paragrafo 7. La stanza.

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Paragrafo 7.

La stanza.

"Che fai dottore? Ti do il benvenuto e tu svieni?"

Bill Stapleton perse di nuovo i sensi per qualche minuto. Poi il dolore alle costole lo riportò alla realtà in quella camera freddissima su quella gelida sedia di legno. Mentre stava per riprendere conoscenza, gli si presentò davanti il viso deforme ed enorme di Stern, a non più di dieci centimetri dal suo e una foto sbiadita di una donna dai capelli rossi sulla parete di fronte a lui.

In un momento di inconsapevole speranza, in quella frazione temporale che separa il sonno dal risveglio, si aspettò ingenuamente di essere accolto nel mondo reale, di ritorno da quello degli incubi, con una marcia trionfale e il profumo delicato di sua moglie sul cuscino accanto al suo, ma capì quasi subito che l'incubo, invece, era appena cominciato. Era stordito e non riuscì a capire se la musica che gli sembrava di sentire nell'aria fosse reale o frutto della sua fantasia.

Le note che tagliavano elegantemente il silenzio sempre più rarefatto erano quelle che gli sembrava di aver già ascoltato ai piedi di un palco in qualche elegante teatro cittadino tra uno sbadiglio e l'altro. Provenivano dal piano di sotto ed accompagnavano con discrezione i disperati versi del mezzosoprano: "... ora calma, ora calma, fa' che io mi possa allontanar...".

Poi intravide Stern allontanarsi di spalle e subito dopo sentì la porta chiudersi a chiave.

Appena recuperò un po' di lucidità, cercò di capire dove si trovasse, senza neanche immaginare che giorno e che ore fossero. Provò a guardarsi intorno, ma ad ogni movimento del collo corrispondeva una fitta di dolore così acuta da spezzargli il fiato. Dovette accontentarsi di dare un'occhiata in giro muovendo l'unico occhio per il momento ancora funzionante. Dalla posizione in cui era, con le braccia e il busto legati a quella pesante sedia, poteva guardare solo tre pareti su quattro, ma dopo lo stordimento iniziale non ebbe alcuna difficoltà ad immaginare che anche la quarta, come le prime tre, fosse ricoperta interamente di foto di quella donna dai capelli rossi. Ce n'erano di tutte le dimensioni, quasi sempre primi piani e nello spazio tra l'una e l'altra, sulla carta da parati giallina unta e grassosa, erano dipinte delle croci nere con vernice lucida e tocco approssimativo.

Sulla parete di fronte a lui vide una libreria quasi completamente vuota. Conteneva solo la copia di una Bibbia in un'edizione non molto recente, qualche fascicoletto che non riuscì ad identificare meglio e una cornice d'argento con una foto troppo piccola per capire di cosa si trattasse.

Alla sua sinistra c'era una finestra non molto grande con le imposte in legno semichiuse da cui si riuscivano ad intravedere le grate metalliche arrugginite all'esterno e una cassapanca sotto di essa. Bill si trovava al di sotto della linea del davanzale della finestra, per cui non aveva modo di guardare cosa ci fosse oltre. Probabilmente sarebbe stato confortato dalla visione di un paesaggio di montagna innevato, con la neve soffice ad arrotondare il taglio spigoloso delle rocce di quelle cime, o forse si sarebbe solo sentito perso per sempre.

Sulla destra, invece, riuscì a scorgere solo un armadio a due ante, un attaccapanni a parete e un lenzuolo bianco impolverato che probabilmente copriva vecchi mobili messi lì in deposito.

L'odore era stagnante, di sporco e di muffa. Gli ricordò la cantina di suo nonno dove veniva mandato spesso da piccolo a recuperare qualche bottiglia di vino o l'immancabile barattolo di conserva sottolio di nonna Megan. Provò ad alzare la testa per completare la visione d'insieme, ma uno scatto secco delle vertebre del collo lo avvisò crudelmente che aveva appena superato il limite.

Vide buio per un istante. Dilatò le pupille. Poi, perse di nuovo conoscenza.

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