Paragrafo 27. Aria.

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Paragrafo 27

Aria.

Dopo il primo impatto con la sensazione di schiacciamento ed oppressione, il corpo di Bill entrò in equilibrio tra il terreno che aveva sotto di sè e quello che aveva sopra. Nello spazio tra la gola e la testa era riuscito a mantenere una piccola cavità libera grazie alla posizione delle braccia e delle mani con cui reggeva saldamente il tubo di gomma che gli permetteva di respirare. Sul resto del corpo la pressione era costante ed omogenea, resa ancora più intensa dall'umidità che stava lì sotto. Sentiva che da un momento all'altro sarebbero esplosi i canali arteriosi e tutto ciò in cui scorreva il sangue sotto la pressione di quel peso che metteva a dura prova la tenuta e l'elasticità dei suoi tessuti. Questo fu l'ultimo pensiero cosciente che ebbe, il suo corpo come un palloncino rosso sotto una pressa inesorabile che si abbassa sempre di più facendolo diventare rosa chiarissimo prima di farlo esplodere, poi la sua mente si concentrò unicamente sulla respirazione e sul movimento costante del suo diaframma.

Gli sembrò che l'unica cosa che potesse fare in quel momento, fosse accompagnare ogni singola molecola di ossigeno nel viaggio attraverso quel tubo, dall'esterno fino agli alveoli dei suoi polmoni che facevano fatica ad espandersi in quello spazio compresso. L'aria che inspirava era gelida e secca al punto da fargli bruciare la gola quasi subito. L'unico sollievo che provava gli veniva dalle gocce di condensa che si formavano all'interno del tubo e che gli scendevano in bocca come un distillato gelato al sapore di gomma e plastica invecchiata.

Dopo la prima ora lì sotto, ebbe la sensazione di essere solo bocca e polmoni. Il resto del corpo era completamente assente. Avrebbe detto di non avere un corpo se non fosse stato per quelle scariche di dolore che periodicamente gli ricordavano l'inferno in cui aveva trascorso i giorni precedenti.

In qualche momento fu lì lì per perdere conoscenza ma si sforzò di restare cosciente per paura di perdere completamente il controllo della respirazione. Aveva gli occhi sbarrati, anche se sotto le palpebre chiuse quasi ermeticamente.

Al piano di sopra, nella neve ormai ghiacciata, Stern si appoggiò al tronco di un albero ed esausto per la fatica dello scavo e del riempimento, si appisolò avvolto nel suo giaccone di panno verde tirandosi il cappuccio fin sopra gli occhi per ripararsi dal freddo pungente delle prime ore del nuovo giorno.

Verso le 6 e 30, il sole tiepido del mattino aveva già trasformato la scena risvegliando gli uccelli e gli altri animali di montagna, che a loro volta si premurarono di dare la sveglia a quell'essere più simile a loro che a quello che ancora stava sotto terra.

Stern si alzò con aria stanca, quasi infastidito di dover rimettere a posto il gioco della sera prima e come un operario che inizia la giornata controvoglia ma che sa di essere obbligato a farlo, impugnò la pala e cominciò a dissotterrare il suo compagno di giochi. Prima i piedi poi le gambe ed infine la parte superiore del corpo. Quando arrivò a togliere gli ultimi strati di terreno dal viso di Bill, questi iniziò a far tremare lentamente le braccia ormai addormentate e a scuotere la testa, poi si staccò dal tubo e iniziò a tossire in modo isterico. Il suo volto, negli spazi che si intravedevano sotto lo sporco marrone appariva pallido e cadaverico, facendo risaltare ancora di più il colore violaceo delle labbra come macchie di sporco su un candido marmo da cucina. Stern lo invitò ad uscire, ma non gli fu possibile. Dovette caricarselo di nuovo in spalla per ritirarsi a casa stanco e soddisfatto col passo di chi rientra da un turno di notte particolarmente intenso.

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