12.Sapore di casa

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KATHLYN
New York, 15 novembre

EVAN ED IO ERAVAMO diventati qualcosa di più e quella sera, a distanza di soli due giorni dalla sfilata, mi ritrovavo seduta nel lato del passeggero della sua auto sportiva.

L'unico rumore all'interno della vettura lo provocavano le lunghe dita di Evan che, senza la minima attenzione, tamburellavano sulla superficie del volante scuro.
Alla radio passava il solito singolo commerciale mentre le auto sfrecciavano rumorose al nostro fianco.

Nessuno dei due aveva accennato a Savannah, al contratto o alle aspettative derivate da esso.
Evan aveva semplicemente parcheggiato l'auto davanti l'entrata di casa mia, mi aveva scritto un breve messaggio ed io ero uscita stretta nel mio cappotto invernale.

Aveva aperto la portiera per me, porgendo poi al portinaio un'abbondante mancia per il disturbo.

Evan ed io eravamo rinchiusi in una piccola bolla di complicità e amavo sempre di più la sensazione di protezione che ne derivava.
Mi aveva protetta, evitando che mi infrangessi al suolo come un piccolo bicchiere di cristallo.
Si era aperto con me, rivelandomi un'altra piccola ferita nella sua indistruttibile corazza.

«Il gatto ti ha mangiato la lingua, biondina

«Come?»

Con la divisa dei Chicago Bulls, un paio di calzettoni pesanti e delle Jordan rosse e bianche ai piedi, risultava l'uomo più bello del mondo.
La leggera barba chiara gli delineava la tagliente mascella, mossa dal continuo movimento del chewing gum masticato.

Immaginai le sue labbra.
Tra le mie gambe.

Incurante dei miei pensieri, Evan osservava attento la strada mantenendo la velocità leggermente sopra il limite consentito.
L'ossigeno sembrava ancora mancare in sua compagnia e sentire il calore del suo corpo così vicino dopo appena due giorni aggravava ancora di più i pensieri totalmente irrazionali creati dalla mia testolina.

«Sei silenziosa, questa cosa mi spaventa»

Mi spostai leggermente sul sedile del passeggero, abbassando per quanto possibile la gonnellina indossata.

Stavo per conoscere i suoi compagni di squadra.
La terza regola era andata a farsi fottere proprio come tutto il mio cervello.

«Ho paura dei tuoi amici... credo»Evan sorrise divertito, lanciandomi uno sguardo carico di parole.

Faceva parte del piano; partecipare a eventi e feste insieme era una delle clausole del contratto.
Conoscere i suoi compagni però pensavo non sarebbe mai avvenuto.

Evan era il mio ragazzo.
Io ero la ragazza di Evan.
Non era più una caccia alla copertina più intrigante, tutto si stava complicando.
Avremmo dovuto mentire guardando in faccia i più cari amici di Evan.

Non volevo farlo.
Le domande però erano inevitabili; se avessi avuto amiche vere -oltre a Lexie- probabilmente anche loro avrebbero preteso di conoscere Evan.
Era una parte inevitabile del gioco.

«Paura di cosa, esattamente?»

«Di non essere adatta...» a te.

Il semaforo diventò rosso e dietro una lunga fila di auto, Evan rallentò.
Quando la vettura si fermò del tutto, i suoi occhi si concedettero finalmente a me.

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