32.Il suo Sole

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KATHLYN
Vancouver, 27 dicembre

LA MEZZANOTTE era passata da poco quando papà mi chiese di seguirlo nel suo ufficio per parlare.

Avevo lasciato Evan tra le grinfie di Vanessa, ancora emozionata di avere noi due come ospiti per la notte.
Se fosse stato per papà, Evan ed io avremmo dovuto dormire in stanze separate e solo dopo l'intervento della moglie aveva aperto gli occhi sul fatto che non fossi più la sua bambina di otto anni.

Non avevo mai passato più di una settimana in quella abitazione; dopo il divorzio, il Canada era diventato un lontano miraggio. Tra l'invidia di mia madre, il lavoro e la distanza, papà si era trasformato in un'abituale chiamata del weekend.

Quando chiusi la porta alle mie spalle però, riconobbi subito la scacchiera con la quale giocavamo all'epoca.

Papà era già seduto dal lato dei neri, lasciando a me il privilegio di iniziare il gioco.
Indossava una felpa della Barkley, l'orologio costoso al polso ma solo una lattina di Pepsi alla sua sinistra.

Sembrava un ossimoro umano.
Così diverso e distante da quello che eravamo sempre state abituate a vivere.

«Andiamo tesoro, non dirmi che ti sei dimenticata le regole»

Sorrisi e basta, accomodandomi davanti a lui per dar ufficialmente inizio allo scontro.
La giacca di Evan mi arrivava a metà coscia, permettendomi di tirare le gambe al petto e nasconderle dentro l'elegante tessuto.

Mi bastava averlo lì con me.
Non mi serviva altro.

«Ho parlato con Madison»

Cavallo in F3 per me, pedone in D6 per lui.

«Mi fa piacere»

«Di te. Ho parlato con lei di te»

Spostai il pedone in E3, mentre papà mosse la sua seconda pedina quasi conoscendo a memoria il gioco.
Non lo guardai nemmeno, già impegnata a fuggire dalla conversazione che stava prendendo forma.

«Madison non sa nulla sulla mia vita ormai. Se volevi risposte potevi rivolgerti a me»

Alfiere in E2.

«Mi avresti davvero detto la verità? Dopo tutti questi mesi tenendomi all'oscuro, ti saresti davvero aperta con me?»

«Puoi biasimarmi? Sai perché l'ho fatto»

«No, non lo so»

Non era una domanda la mia.

Spostai di nuovo il cavallo, mangiando la prima pedina nera della scacchiera.
Entrambi sapevamo che la partita non aveva più importanza, eppure continuare il gioco era diventato quasi vitale.

«Non mi hai mai chiamato. Non ti sei mai fatto vivo se non per sapere come andavano le sedute dalla terapista, che casualmente paghi tu, no?»

Papà incassò il colpo, prendendosi tutto il tempo per giocare il suo turno.

«Capisco che non vuoi avere più nulla a che fare con la tua precedente vita...» proseguii io, straripando da tutti gli argini.

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