19.Due vite

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EVAN
Detroit, 29 novembre

SULLA VENTESIMA NORD, pochi passi dal grande incrocio di Warren Rd, si trova un piccolo campo da basket rettangolare delimitato da un'alta recinzione.

Considerato il quartiere, il campetto risulta quasi un eden fiorito e perennemente luminoso; nel grigio e nello spoglio ambiente circostante il pavimento blu sgargiante illumina l'intero isolato.

Un tempo, in quel lotto di terreno, sorgeva una casa di famiglia del tutto abbandonata.
Due camere da letto, un soggiorno e una cucina piccola ma funzionale. Il bagno dalle piastrelle bianche e il ripostiglio sempre chiuso a chiave.

La mia stanza dava sul cortile del vicino; perennemente impegnato a cuocere carne nella sua griglia di seconda mano. I baffi si inumidivano di birra e la pancia scoperta si allargava sempre di più.

Non aprivo mai la finestra ma riuscivo ad intravedere tutto data l'assenza di tende.
La camera di mamma invece era sempre buia, il suo corpo giaceva per giorni nel letto matrimoniale e nessuno spiraglio di sole azzardava a riscaldare l'ambiente circostante.

Dovetti abbandonare la casa della mia infanzia all'età di sei anni, quando mamma morì e io finii nelle mani degli assistenti sociali.
Da allora, ogni casa perse il suo significato, riducendosi a misere abitazioni in legno vissute da persone a me estranee.

Solo dopo essere stato adottato da Victoria ed essere uscito dal riformatorio avevo avuto la possibilità di ritornare in quel luogo.
Per nove lunghi anni nessuno ci aveva più messo piede e l'abitazione era crollata sotto il peso del tempo e della desolazione.
Il tetto aveva ceduto e sul pavimento erano rimasti solo i segni della sporcizia e delle canne fumate dai bulletti del quartiere.

Una casa. Una famiglia. Due vite.
Tutto perduto.

Avevo comprato il terreno e grazie ai primi guadagni da giocatore professionista avevo raso al suolo le macerie, facendoci costruire sopra un campo da basket in grado di riunire tutti ragazzi della zona.
Non servivano soldi e tanto meno permessi speciali; se volevi giocare a basket potevi farlo.

Al centro del campo, sul pavimento ormai calpestato da centinaia di ragazzi e dove un tempo sorgeva la sua camera da letto, una targa argentata riportava il nome della mamma.

Perché lei aveva vissuto lì e nessuno avrebbe dovuto dimenticarlo.

Non era stata una cattiva madre
-o probabilmente io non possedevo abbastanza ricordi per poterlo affermare con sicurezza- era stata solo sopraffatta dalla vita, maltrattata da gente più potente di lei e le sue urla non erano mai state ascoltate veramente.

Portavo con orgoglio il suo cognome e così sarebbe stato per tutta la vita.

L'uomo, che tanto amava definirsi mio padre, avrebbe potuto schierare centinaia di avvocati o spendere cifre spropositate solo per attirare la mia attenzione ma nulla sarebbe cambiato.

Lui non c'era stato il giorno della mia nascita.
Lui non c'era stato il giorno del mio primo compleanno, del mio primo giorno di scuola e tanto meno alla mia prima partita di basket.

Lui non era mai esistito e così sarebbe stato fino alla mia morte.

Avevo già una famiglia, avevo già avuto una madre e grazie a qualche angelo custode ero riuscito ad averne un'altra.
Avevo avuto fama, vendetta e successo; per quanto lo desiderassi, l'amore di un padre non era cosa indispensabile.

«Riprova, non è tardi»

«Sono stanco, cazzo! Siamo qui dentro da cinque ore»

«E ne staremo altre cinque se non muovi quel culo»

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