20.È una promessa

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EVAN
New York, 30 novembre

NONOSTANTE FOSSERO le dieci di sera passate, l'aeroporto sembrava non essere mai stato più affollato di allora.

Me ne stavo in disparte, stretto in una felpa nera e una camicia in flanella troppo appariscente per i miei gusti, attendendo il permesso per potermela dare a gambe.

Un ragazzino dai capelli ricci mi stava fissando, stringendo di tanto in tanto con maggior insistenza la mano del padre.
Lui non lo calcolò di striscio e io sperai vivamente che continuasse per quella strada.

L'aereo era atterrato venti minuti prima, la folla stava ancora attendendo l'apertura dei portelloni e le persone schifosamente ricche della prima classe avevano già iniziato a lamentarsi.

Io sentivo solo le dita pizzicarmi e il cuore calpitare troppo forte.

L'avrei avuta tra le braccia a momenti.
Lei sarebbe stata lì fuori ad aspettarmi.

«Papà» un altro strattone, l'uomo non si mosse «Papà è lui!»

Sistemai un'ultima volta il cappellino sulla testa, defilandomi dal mio comodo angolino.
Le porte si aprirono e le hostess iniziarono a coordinare l'uscita di tutti i passeggeri.

Ancora prima di attraversare il tunnel, il messaggio di Simon mi comunicò che fossero tutti e tre ad attendermi oltre le porte.

Tutto era cambiato dopo quella cazzo di telefonata.
Mi ero sentito una merda per averla lasciata andare dopo la partita e mi ero odiato ancora di più per non averla potuta stringere nel momento del bisogno.

Non avevo esitato a chiamare Simon, obbligandolo ad andare a recuperare Kat in quell'hotel insignificante.
Il fatto che avesse passato l'ultima notte in compagnia di persone fidate alleviava di poco il voltastomaco che sentivo ogni volta che me la immaginavo sola e senza nessuno su cui contare.

Sentivo la necessità fisica di toccare la sua pelle, guardare il suo viso e constatare personalmente che fosse al mio fianco.
Il bisogno di proteggerla e saperla al sicuro era diventato viscerale, superando di gran lunga i doveri rivolti a me stesso.

Era esagerato?
Niente di tutto ciò aveva più senso.

Le persone mi camminavano intorno, marciando esauste verso le porte d'uscita. Abbassai ancora una volta il frontino sugli occhi, caricando in spalla lo zaino scuro contenente le mie cose.

Non guardai in faccia nessuno, non ascoltai altro che la suola delle mie sneakers sul pavimento lucido del Terminal.

Facevo lo stesso sul campo da basket.
Guardavo l'obbiettivo dritto in faccia, rendendolo l'unica cosa per cui valesse davvero la pena giocare.
In quel momento però, non c'era una squadra avversaria o un canestro nella quale segnare; le mie pupille vagavano solo alla ricerca di quelle di Kat.

Se il basket mi aveva messo al mondo, lei era diventata la ragione per restare ancorato ad esso.

Varcai l'uscita, togliendo le cuffie per appenderle al collo.

Non faticai ad individuare il metro e novanta del mio amico, tanto meno le due donne che si portava appresso.
Nola, bruna ed elegante nel suo cappotto firmato.
Kathlyn, avvolta da una felpa dei Nets in grado di nascondere le morbide curve che avrei voluto baciare centimetro dopo centimetro.
I lunghi capelli biondi erano raccolti in una coda bassa, adagiata comodamente alla spalla sinistra.

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