34.Avvocato d'accusa

1.5K 84 34
                                    

KATHLYN
New York, 07 gennaio

«SEI PRONTA?»

Annuii allo specchio, aggiungendo uno strato di rossetto al colore preesistente sulle labbra.
Non avevo mai utilizzato quella tonalità prima d'ora, eppure entrata da Sephora e domandato il colore più da "donna d'affari cazzuta e indipendente", avevo ottenuto quello.

Potevo farcela.
Un rossetto non avrebbe fatto la differenza, ma in quegli attimi di panico mi piaceva credere il contrario.

«L'auto passa a prenderci tra qualche minuto»

Guardai papà attraverso il riflesso, cercando di tranquillizzarmi.

Sul mio cellulare non c'era alcuna notifica da parte di Evan.
C'eravamo sentiti due ore prima e da allora più nulla.

Non si era dato pace dal momento in cui aveva scoperto che il mio processo sarebbe stato lo stesso giorno della sua trasferta a Las Vegas.
Mi aveva detto di volerci rinunciare ma io avevo insistito, spingendolo ad andare comunque.

«Andrà bene Kat. Siamo qui per te»

«Non ho paura della sentenza»
Sospirai, bugiarda fino al midollo.
«Voglio solo apparire diversa agli occhi di Madison e mamma. Non voglio che credano di avermi distrutta»

«Tu sei diversa, Kat. In te non c'è più nulla della Kathlyn bambina»

«A quale versione di me vuoi più bene?»

Papà si lasciò andare a una risata leggera, avvicinandosi per potermi abbracciare.

«È una domanda a trabocchetto, lo so»

Risi insieme a lui, terminando di infilarmi la giacca del completo elegante.

Papà osservava la stanza, le pareti e il letto matrimoniale di Evan (diventato da un bel po' di tempo anche il mio).
Scrutava scettico l'ambiente circostante, rimuginando su qualcosa che non aveva affatto voglia di confessare.

Se non fossi stata troppo impegnata a sistemare la mia figura allo specchio, probabilmente gli avrei fatto il terzo grado su tutto.

Avavo legato i capelli in una stretta coda bassa, mentre il trucco al viso mascherava l'espressione da bambina che tanto avevo iniziato ad odiare.
Mi ero rifugiata dietro tutte quelle piccole sciocchezze, era vero, eppure non sapevo come altro affrontare la realtà.

Il processo definitivo si sarebbe tenuto a porte chiuse in una spoglia sala conferenze del tribunale.
La maggior parte del lavoro era stato fatto dai legali, mentre noi ci eravamo limitate al silenzio stampa reciproco.

Non vedevo mamma da quasi due mesi.
Nessun saluto, nessun messaggio per accertarsi che stessi bene o fossi in salute.

Nulla.
Come ciò che aveva sempre provato per me.

«Non c'è nulla di tuo in questa casa»
ammise papà alla fine, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni.

«Non ho molto»

«Tua madre non ti ha più dato le tue cose?»

Scossi il capo.
«Non le voglio. Non le sentirei comunque mie»

BLACK LIES Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora