Sigarette

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Avevo smesso di piangere a undici anni.

Le mie ultime lacrime si erano consumate nell'oblio di un'oscurità così fitta da non riuscire neanche a vedere me stessa, tra l'odore lurido dell'urina che mi bagnava le cosce e una follia talmente profonda da sembrare sana.

Dopo quel giorno, non le avevo più versate.

Non me lo ero più potuta permettere, perché lo avevo giurato, una scelta presa nell'unico momento di razionalità che una bambina di quell'età può avere. Lo avevo promesso a me stessa, e così era stato.

Avrei dovuto aspettare il momento.

Fino ad allora, la libertà del pianto non mi era concessa, e quella era una condanna che ero costretta a pagare ogni giorno, ad ogni secondo, ad ogni emozione. Una pena che mi ero auto imposta per sopravvivere e tirare avanti, e di cui ne sentivo la tortura in qualsiasi momento e respiro.

Solo io conoscevo il supplizio di quella realtà, quell'odiosa sensazione di avere una bestia proprio dentro lo stomaco che azzanna e graffia tutto quanto nel tentativo di uscire, e l'atrocità di doverla rinchiudere, di non poterla lasciare scappare.

La fatica di essere malata di un tumore diverso da quello di Jesse, un cancro che mi infettava l'anima, e di non potergli permettere di diffondersi troppo, di combatterci ogni giorno perché le sue metastasi non si prendessero tutto, non mi uccidessero una volta per sempre.

Il tarlo di non potersi lasciare andare, nemmeno per un secondo, la consapevolezza di non potermelo permettere anche se ci fossero state persone disposte ad accoglierlo. L'afflizione di essere una bomba creata solo per distruggersi, ma non poter esplodere.

Io solo lo sapevo, io solo lo conoscevo.

E nelle lacrime che lei stava versando, percepii tutta la mia invidia sradicarsi e troneggiarmi dentro. Le guardavo e mi sentivo corrodere da una ruggine di gelosia così violenta da arrivare al cuore e modificarne le pulsazioni.

Solo Dio sapeva quanto in quel momento avrei voluto fare a cambio con quella ragazza, chiederle il permesso di prendere il suo posto solo per qualche minuto, far diluviare dai miei occhi fino ad allagarmi dentro.

Avevo tante cose per cui piangere, io.

Tanti motivi che avevo collezionato nel corso di moltissimi anni, e che ora splendevano nei loro appositi scaffali, gli uni accanto agli altri, in ampolle che li sigillavano e aspettavano soltanto di esser distrutte.

Avrei voluto chiederle di prestarmi per un attimo la sua vita, permettermi di fingere che fosse la mia, solo per avere la scusa di disperarmi come lei.

Trovare il sollievo di un'intera vita passata a sorridere nelle stesse lacrime che ora le scheggiavano il viso.

Ma non era ancora il momento.

Non era ancora il momento.

E così masticai l'invidia con il sorriso che le regalai durante il suo sfogo, la rimandai giù per la gola e la sentii ricadermi nello stomaco con un tonfo. Tirai fuori, invece, dallo zaino preso dall'armadietto, un pacco di fazzoletti e glielo porsi. «Tieni» dissi serafica, «asciugati con questi.»

Lei singhiozzò ancora, si asciugò il volto con i dorsi delle mani, e così facendo il suo trucco, già sciolto di suo, si sparpagliò ancor più sulla faccia. Sfumature corvine gli pennellavano la carne degli zigomi e le palpebre inferiori. «S-Scusa» balbettò, mentre si strofinava il fazzoletto addosso. «Oggi sono particolarmente emotiva.»

«Hai vissuto quello che è l'incubo di ogni ragazza» notai, «è normale che ti senta così. Vuoi un po' d'acqua?»

Scosse la testa. Eravamo inginocchiate sulle piastrelle dello spogliatoio, e le nostre voci rimbombavano tra le pareti in modo quasi lirico. Anche così, però, anche in quelle condizioni, piangente e con il trucco sciolto addosso, lei era la creatura più bella che avessi mai visto. Riluceva di un bagliore tutto suo, di una magnificenza che sembrava incarnarsi nel suo stesso respiro, negli occhi chiari che brillavano sotto il riflesso del pianto.

Apologia di Callisto - COMPLETADove le storie prendono vita. Scoprilo ora