Specchio

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Avevamo dato spettacolo, questo era certo.

Ma per lo meno, adesso Mason non parlava più.

Con il braccio torto da Ruben, dietro la schiena, inginocchiato a terra, guardava fisso sul pavimento, il volto rovinato dall'ira, le narici dilatate.

La sua ragazza, la stessa che io avevo picchiato giorni prima, guardava la scena da uno dei tavoli, pallida e malconcia, come se fosse lei quella sotto giudizio.

Il resto degli studenti osservava soltanto, dal bancone della mensa alcune addette sollevavano le teste da sopra le vetrate per cercare di capire meglio quello che stava succedendo.

Mi sentii fiera di me, mi sentii migliore. Avevo appena fatto valere la mia sopra un bullo, come mai mi era capitato di fare prima di allora, e quella sensazione d'adrenalina era come una droga, mi infervorava tutti gli organi, cuore, polmone, fegato, credevo di non averne mai abbastanza.

Non riuscivo a nascondere il gigantesco sorriso che mi deturpava le labbra, non ci riuscivo proprio. Mi sentii invincibile, per la prima volta mi sembrò di non essere più una vittima, di essere io, finalmente, la carnefice.

Ma anche così, non potevo permettere che quella situazione andasse avanti a lungo. Le addette alla mensa si stavano scaldando, preoccupandosi della scena che avevano davanti, così mi avvicinai a Ruben a passo svelto, gli presi la mano che ancora torceva il braccio di Mason.

«Basta così» gli dissi, e il mio non fu un ordine, bensì una semplice richiesta.

I suoi occhi calarono su di me, e io mi ritrovai a pensare che la loro eterocromia era quanto di più magnifico potesse esistere al mondo: era come vedere il punto preciso in cui l'oceano azzurro e cristallino si separava dalla terra scura e imbrunita.

«Rischiamo di finire noi dalla preside, così» gli feci notare.

Ruben sembrò pensarci su per qualche minuto, poi, alla fine, lasciò andare la presa. Mi guardò con un sopracciglio inarcato: «Così questo è il tuo vero sorriso.»

Lo nascosi subito dietro la mano, ma non potei che ridacchiare. «Sono stata forte, vero?» gli domandai, lui sollevò l'altro sopracciglio. «Avanti» lo spronai, dandogli una gomitata al costato. «Sono stata figa, vero?»

Le mie speranze di ricevere un complimento da parte sua dovevano apparirgli palesi, perché mi afferrò il viso con una sua sola mano e mi reclinò la testa all'indietro, in un gesto di derisione che mi portò ad indietreggiare per mantenere l'equilibrio. «Non ti ringrazierò» dichiarò subito, quando mi lasciò andare, ma io non mollai la presa, gli afferrai la mano con la mia.

Ruben mi guardò come se avesse appena mangiato vomito per colazione, comunque, tuttavia, io continuai: «Vieni a sederti con noi.»

«Io non mangio con gli altri.»

«Non mangi con gli altri, mangi con me» lo corressi. Non sapevo dire il perché, ma tenevo davvero a quel momento, come mai mi era successo prima d'ora.

Non lo so, forse era perché sentivo la sua anima affina alla mia, forse perché sapevo che i suoi occhi filtravano qualsiasi mia bugia, forse perché lui era l'unico a conoscere il mio segreto, proprio non riuscivo a sopportare il pensiero che rimanesse da solo a mangiare in un angolino distante a tutti, a venir preso in giro dagli altri per essere un inetto asociale, il delinquente del Dump che non meritava amici.

C'era qualcosa di strano che nasceva in me ogni volta che lo guardavo, un sentimento a cui non sapevo dar nome e che eppure era così primitivo e viscerale da scavarmi nelle budella e riempirle di sé, fino a farle esplodere.

Apologia di Callisto - COMPLETADove le storie prendono vita. Scoprilo ora