Dump

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Avevo speso gran parte della mia vita negli ospedali.

Sono luoghi tremendi, gli ospedali, luoghi che in tanti detestano, luoghi in cui la morte, volente o nolente, la senti nell'aria, negli sguardi afflitti dei dottori e quelli disperati dei genitori.

Io, però, li amavo.

Là dentro ci ero cresciuta, là dentro avevo avuto le mie prime cotte, i miei primi brufoli, le mie prime delusioni.

Là dentro avevo avuto Jesse.

Jesse che brillava di felicità e spensieratezza, anche se era incatenato a quei posti come la morte lo era alla vita, anche se aveva conosciuto più aghi che persone e medicine che sentimenti. Quella prigione che in tanti consideravano deleteria non era bastata per stemperare il suo animo leggiadro e spiritoso, per mozzargli l'ottimismo immacolato con cui ogni giorno era in grado di portare il sorriso anche ai più austeri infermieri.

Io ero stata accanto a lui per tutto il tempo.

Lo avevo visto crescere nel recinto di quelle quattro mura, ero stata testimone del suo corpo che appassiva come i fiori lasciati sui cigli della strada in memoria dei defunti. Mentre i ragazzi della sua età sviluppavano i primi muscoli e la barba, Jesse iniziava a perdere capelli e a impallidirsi fino a fondersi coi muri dell'ospedale. Le labbra si facevano secche e gli occhi si riempivano di borse scure, mezzelune inchiostrate.

Ero io quella che lo aiutava ad alzarsi dal letto per arrivare fino al bagno, io che lo ripulivo dal vomito che la chemio gli induceva, io che lo imboccavo quando non aveva nemmeno la forza di sollevare le braccia, io che lo controllavo mentre dormiva, mi assicuravo che respirasse bene, che la flebo non gli desse fastidio. Ogni livido che si creava sul suo corpo veniva prontamente curato con la pomata dalle mie mani, e sempre io continuavo a rasargli i capelli, perché riteneva inutile farseli crescere se tanto poi li avrebbe persi di nuovo.

I nostri genitori aiutavano, questo era vero, ma molto spesso non avevano la forza di fare tutte quelle cose o erano troppo impegnati col lavoro per riuscire a starci dietro. La prima volta che lo aveva visto vomitare sangue, la mamma era svenuta a terra, mentre nostro padre era troppo preso a lavorare, a parlare coi medici, a cercare una cura miracolosa che potesse risolvere tutto quanto, cancellare quel dolore all'improvviso.

Eravamo sempre stati noi.

Eravamo uno solo in due.

Noi che eravamo fratelli, noi che non conoscevamo altro che quel legame.

E forse avrebbe dovuto pesarmi tutto ciò, forse avrei dovuto provare risentimento per questo, ma per qualche motivo non ne ero in grado. Guardavo Jesse negli occhi, guardavo il suo sorriso, e mi rendevo conto che non avrei mai voluto fare a cambio con qualcun altro. Perché per quanto la malattia gli stesse uccidendo il corpo, non era in grado di assassinare la sua anima. Quella era rimasta intatta e integerrima, salda quanto l'acciaio, e non si era lasciata consumare dalla sofferenza.

Il fisico appassiva, ma lo spirito sbocciava.

Jesse era il tipo di persona così coraggiosa da volere amare la vita anche quando quest'ultima le aveva dato solo motivi per odiarla.

E la amava, la amava follemente. Amava leggere, scrivere, studiare, amava le soap opere argentine, commentare i brutti film adolescenziali, leggere gli ultimi young adult e dark romance in voga, lasciare recensioni negative con cui spiegava come e perché erano trash e tossici, per poi gongolare come non mai davanti agli insulti e l'indignazione delle fan. Amava i poemi omerici, i miti e la letteratura dell'antica Grecia, il latino, le poesie contemporanee. Amava prendermi in giro, ricordarsi di me, non dimenticarmi mai, trattarmi per quella che ero, anche se non c'era niente di che.

Apologia di Callisto - COMPLETADove le storie prendono vita. Scoprilo ora