Inferno e paradiso

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Una gettata d'acqua ghiacciata mi si rovesciò in faccia.

Spalancai gli occhi, risvegliandomi dal nulla in cui ero svanita.

La mia bocca si spalancò da sola, nel tentativo di prendere più aria possibile per i polmoni, e quando lo fece, una fitta acuta mi esplose nel retro del capo, annientandomi tutti i pensieri. Sibilai per il dolore, rotolai a terra, presa dalla confusione.

«Avanti, tesoro, svegliati, non c'è gusto se continui a fare la Bella Addormentata.»

Chiusi e rialzai le palpebre più e più volte, cercando di uscir fuori dalla voragine di smarrimento dentro cui mi ero persa. Stentavo a ricordare chi fossi, cosa mi fosse successo, il mio sguardo schizzò impazzito da tutte le parti, alla ricerca di qualche elemento che mi facesse comprendere qualcosa della situazione in cui mi trovavo.

Feci per sollevarmi, per poi sobbalzare quando mi accorsi di un dettaglio che finora mi era sfuggito.

Un dettaglio che mi raggelò il cuore, che portò il sangue a tramutarsi in ghiaccio, la pelle a ricoprirsi di sudore freddo, i pensieri a rievocare gli incubi di tempo prima.

I miei polsi erano legati dietro la schiena.

I miei polsi nudi erano legati dietro la schiena, senza i loro bracciali.

Percepii il petto venir squarciato a mani nude, aperto e sventrato.

Perché lo sapevo.

Anche se non potevo vederli, anche se erano dietro la mia schiena, sapevo cosa li stava legando. Riconoscevo troppo bene quella tortura: il dolore sordido che segava la carne, quell'atroce terrore che le mani mi venissero segate, tant'era stata la violenza con cui erano state strette assieme.

Delle fascette di plastica.

Tutta l'aria che avevo faticosamente raccolto fuggì via con uno scoppio singolo, lasciandomi tremante a terra, a battere i denti.

L'oscurità dell'armadio, l'odore nauseabondo dell'urina che mi riscaldava le cosce...

«Ehi, mi senti, dolcezza? Andiamo, non ti ho colpito ancora così forte.»

Non riuscivo a respirare, non riuscivo a pensare. C'erano le fascette, quelle dannate fascette, c'erano-

Un colpo allo stomaco, forte, violento, così diretto e preciso da non darmi neanche la forza di urlare. Sentii le viscere strizzarsi nel tentativo di ammortizzare quel dolore, gli occhi sbarrarsi per l'impatto, rischiare di uscirmi dalle orbite.

«È sempre stata così, lei. Le piace esagerare per attirare le attenzioni e farti sentire in colpa.»

Riconoscevo quella voce.

L'avrei riconosciuta ovunque, anche nell'oscurità, soprattutto nell'oscurità.

I denti ripresero a ribattere con più forza, sbattei con furia le palpebre, e con tutto il coraggio che mi era rimasto, mi costrinsi a guardare ciò che avevo davanti, mentre riprendevo fiato per sopperire alla sofferenza del colpo appena ricevuto.

C'era mamma, in piedi davanti a me, a guardarmi dall'alto mentre io ero sdraiata ai suoi piedi.

Ma non era la mamma che conoscevo, quella sempre truccata e vestita alla perfezione, con gioielli che costavano quanto ville intere, la pelle curata, i capelli sempre acconciati come se fosse appena uscita dal parrucchiere, le labbra dipinte di rosso, le ciglia lunghe.

La mamma che avevo davanti era una donna che non conoscevo, una donna malconcia, con la carne pallidissima, la bocca screpolata, gli occhi incavati, rossi dalla furia e dall'insonnia, dei vestiti smessi che mai avrebbe osato anche solo guardare una volta, un maglione grigio dentro cui navigava, tutto sfibrato sugli orli e pieno di toppe, un paio di pantaloni in condizioni uguali.

Apologia di Callisto - COMPLETADove le storie prendono vita. Scoprilo ora