Genesi dell'anima

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Iniziò tutto con i lividi.

Avevo sette anni, Jesse ne aveva tredici.

Iniziò tutto quasi per caso, in un modo così semplice che se ci ripensi ti chiedi come sia possibile, come possa una cosa così banale essere il preludio di una delle tragedie più grandi della tua vita.

Gli ematomi arrivarono in fretta, gli iniziarono a crescere come funghi nella pelle. Ce li aveva sulle braccia, le gambe, alcuni persino sul viso. Erano tutti diversi tra loro e possedevano le forme più strane, e da principio nessuno se ne preoccupò. Perché Jesse era giovane, era forte e atletico. Passava gran parte delle giornate a giocare a calcio con gli amici, cadeva, si azzuffava con gli altri ragazzi per cose stupide, si arrampicava con me sui giochi dell'area bambini, mi aiutava ad imparare il balletto di Crystal Ballerina, mi issava sulle spalle e mi faceva fare l'aeroplano correndo come un pazzo.

Eravamo giovani, in fondo, eravamo spericolati, qualche livido capitava a tutti.

Solo che a lui capitavano più spesso.

Anche mamma e papà non se ne preoccuparono, erano felici di vederlo così attivo, la sua vivacità li faceva sentire orgogliosi, guardarlo entusiasta della vita li rendeva fieri come genitori.

Non si accorsero nemmeno loro del primo campanello d'allarme, non riuscirono a intuirlo.

Capitò una volta in cui un livido enorme gli si formò su tutta la schiena. Era gigantesco, un mostro violaceo che si spandeva sulla carne per assorbirne le forze. Una nebulosa purpurea che sembrava esserglisi cristallizzata proprio lì, sopra le vertebre, e nel vederla io quasi la ammirai, perché c'era fascino nel suo orrore.

«Ho preso una pallonata» mi avrebbe spiegato lui mentre la carezzavo, «però, cavolo, non mi sembrava così forte.»

Nemmeno Jesse capiva, e questa è forse la più grande crudeltà della malattia: era il suo corpo, la sua vita, eppure non aveva le conoscenze e le competenze per rendersi conto che qualcosa non funzionava più come prima. Non sono mai riuscita a immaginarmi appieno l'orrore che si deve provare nel rendersi conto che il nostro fisico, il luogo in cui abitiamo, in cui esistiamo, in cui siamo, sta appassendo ma non ce ne siamo mai accorti.

Come noi, anche lui credeva che tutto andava bene, che era solo perché si divertiva troppo.

I primi segnali furono i lividi, il secondo l'affaticamento.

Si stancava sempre, anche per poco.

Lui che era abituato a correre per chilometri senza mai fermarsi, tutto d'un tratto si affannava anche solo a fare la prima rampa di scale del condominio. Sudava, si sentiva mancare, eppure persisteva: diceva che era il cambio di stagione, qualcosa che aveva mangiato, una carenza di vitamine.

Aveva tredici anni, Jesse, solo tredici anni.

A tredici anni era bello come non sarebbe mai più stato, con i cirri biondi a decorargli il capo e il volto splendente, le sopracciglia folte, il naso dritto, la faccia sporcata dai primi brufoli.

A tredici anni non sai quasi niente della vita, ti ci infili dentro pian piano, come un filo sottile nel buco di un ago.

A tredici anni Jesse dovette scoprire l'orrore della malattia, il giorno in cui perse i sensi mentre stavamo giocando a calcetto con gli altri vicini di casa, nel giardino del palazzo.

Era in piedi di fronte a me, stava per calciare la palla, e tutto d'un tratto crollò a terra, a faccia in giù, sull'erba incolta del prato.

Di quel giorno gli restò un incisivo scheggiato e la prima grande diagnosi della sua vita: leucemia promielocitica acuta.

Apologia di Callisto - COMPLETADove le storie prendono vita. Scoprilo ora