-Atto XXXIV-

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"Verba Volant, Scripta Manent."

TW: Violenza fisica. Violenza psicologica.

...

Gennaio 2005,

La copertura che le era stata messa sul viso, e che le aveva oscurato la vista fino a quel momento, le venne sfilata via da mani ruvide come un cerotto. Poi, una luce penetrante, le pervase i nervi ottici indolenziti e abituati a quel buio.

Fu come essere pugnalata.

Scostò subito il viso, e lo portò su quelle pareti bianche e immacolate che si estendevano lungo tutta quella stanza in cui era stata portata.

Era come se l'inverno più gelido le fosse entrato nelle viscere per catturarle il controllo nei muscoli che si tendevano, e poi si rilassavano per tornare a tremare violentemente.

La circolazione nei polsi, tenuti fermi dietro quello che in quel momento capì essere lo schienale della sedia su cui era stata fatta sedere, si era bloccata per quanto fossero stati compressi. Sentiva qualcosa di freddo graffiarli ad ogni minimo movimento, un tintinnio propagarsi.

Era stata ammanettata.

Deglutì, e ormai ai limiti del panico provò a portare fiocamente lo sguardo su quell'area per analizzarla. Il bianco delle pareti la inghiottì immediatamente, così come lo spazio apparentemente vuoto, impersonale.

Non era una stanza troppo ampia, ma neanche ristretta. Intenzionalmente intima. Le pareti parevano insonorizzate, prive di finestre o alcun tipo di sbocco. Nessuna mobilia, se non per il tavolino che le stava di fronte, e che sorreggeva quella lampada che era stata piazzata proprio verso il suo viso, e che inizialmente l'aveva accecata.

L'aria che aleggiava pareva...sterile; poteva dire che permeasse un clima sanificato, quasi ospedaliero. Asettico.

A quella constatazione il panico s'impossessò completamente di lei, e si fece sempre più presente. I fremiti divennero convulsioni febbricitanti, il respiro le divenne ansimante, agitato, a tratti singhiozzante.

Oh Dio...

Era stata presa. Era stata catturata.

Era ad Azkaban.

"Lo sai perché sei qui, Hermione Jean Granger?" interrogò una voce melliflua, profondamente controllata, proveniente dall'altra capo del tavolino.

Hermione si congelò a quel suono, il cuore smise totalmente di battere.

Tornò a guardare oltre quel tavolino, e, combattendo contro la luce fredda, e la debilitazione della sua vista, s'impuntò su quella sagoma ritta che se ne stava seduta di fronte a lei probabilmente da quand'era arrivata.

Il contrasto della lampadina la rendeva indistinguibile, un'ombra indefinita e oscurata. Ma poi, focalizzandone i segmenti, Hermione riuscì a scorgerne i contorni orribilmente familiari.

Non poté esserne sicura, ma quelle spalle ampie coperte dalla penombra della tunica bastarono. Il fez ampio e la nappa che sbucava dalla sommità e oscillava fiocamente bastò.

Si ghiacciò per un momento, poi gli spasmi ritornarono a catturarla, a rapirle il respiro. Il panico la inghiottì.

Provò a muoversi, ad alzarsi, ma non ci riuscì. Le catene delle manette attorno ai suoi polsi tintinnarono, si strinsero ancora di più, fino a ferirle la pelle. Erano manette magiche.

Lo sterno le si riempì di fumo, il cranio pulsò. Non riusciva a respirare, non riusciva a muoversi, la gola raschiava alla ricerca di aria che non arrivava.

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