-Atto XXVI-

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"Veni, Vidi et Vici, Pt. II."

...

Gennaio 2005,

"Puoi dirmi il tuo nome completo?"

La voce di Dorcas era cauta, di quell'abilità professionale che non si lasciava andare troppo alla profondità personale, ma allo stesso tempo calma, per non mettere in soggezione il ragazzo che aveva dinanzi.

L'aria era tesa, sorretta da quel tenue ticchettio dato dagli orologi che battevano i secondi, i minuti e le ore che scorrevano senza carità. Hermione, Andromeda e Teddy erano divenuti spettatori su degli spalti fatti d'aria, troppo attenti per curarsi persino degli spifferi di vento che traboccavano dalle fessure degli sbocchi.

Inchiodati su quel pavimento i loro occhi non parevano chiudersi neanche per un secondo, seguendo quegli attori seduti sulle poltrone, coperti da un effimero fascio di luce che li circondava.

Quella stanza non esisteva più neanche per Hermione. Fu sicura che la sua guancia stesse chiedendo clemenza ai suoi denti di smetterla per quanto la stessero seviziando, le sue spalle domandavano pietà alle braccia per quanto le stessero stringendo. Ma per lei non esisteva nulla.

Non esisteva il suo corpo, non esistevano quelle mura o quelle finestre. Non esisteva più neanche lei. Si sentì come un fantasma che vaga su un treno lentissimo, e che come destinazione ha il vuoto cosmico. I binari divennero quelle labbra violacee e quelle iridi di mercurio, la destinazione era la sua voce e le sue parole.

Aveva aspettato quel momento da tanto, si era adoperata animosamente per dimezzare quei giorni, quella distanza, che la divideva da quel giorno che ora era reale, presente. Si fece di materiale solido, tanto consistente da poterlo toccare.

Tutto il suo percorso apparì nella sua mente come una corsa, una gara sfiancante che bisognava vincere per ritenersi appagata. Aveva dato tutta se stessa, aveva saltato su quelle barriere ostacolanti, e stracciato gli avversari che volevano raggiungerla. Aveva sfiorato il nastro con adrenalina e poi aveva assaporato solo per un secondo l'aria fresca del traguardo. Era arrivata al capolinea, e ora doveva solo riscuotere il suo premio.

Le sue dita seguirono le ossa che sporgevano dalle spalle, e poi i muscoli che erano rimasti flessi e tesi per tutto quel tempo. Se li compresse nei palmi, di più, sempre di più, nella sciocca speranza di farli ammorbidire e rilassare ora che ce l'aveva fatta.

Ma quelli ad ogni tocco si facevano sempre più rigidi, robusti come diamante che non si scalfisce mai, e si rafforza solo di più ad ogni colpo.

Non lo voleva quel premio, non lo voleva più. Quel trofeo d'oro s'era trasformato in qualcosa di terribilmente nauseante sotto i suoi polpastrelli, in qualcosa di ripugnante che non voleva neanche toccare.

Voleva ritornarsene indietro, voleva ritornare al punto di partenza e starsene lì, ferma, come aveva sempre fatto. Voleva rimanere in quell'ignoranza che aveva sempre temuto e che si era trasformata in una bolla di vetro che alla fine l'aveva protetta.

Tutta la voglia di conoscenza evaporò e si sgonfiò come un palloncino in quella stanza, si pentì in quell'istante di averlo fatto. Quell'ossessivo bramare una spiegazione, una fonte, le apparì come un peccato che ormai non poteva più essere deviato.

Le cose non bisognava mai dirle ad alta voce, lei lo sapeva, perché era esaltante il muoversi per seguirle, era emozionante arrivarci così vicino da toccarle. Ma poi diventavano nocive sulla tua pelle, si indebolivano come cartapesta, e tutta quell'affamato anelare si trasformava in un vuoto asfissiante, un vuoto che non volevi neanche vedere.

Revelio | DramioneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora