-Atto XXX-

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"Omnia Tempus Habent."

...

Gennaio 2005,

'Ho dei risvolti. Vediamoci domani alle 9 a.m ad Hyde Park.' -H

Il messaggio di Harry brillava sotto le dita di Hermione, giocherellava vagamente con quel galeone mentre se ne stava sull'ultimo treno di quella giornata, e che li avrebbe riportati a King's Cross.

Le sue labbra erano serrate, il suo sguardo lontano su quel vetro che riportava un sole al culmine della stanchezza, che era pronto a ritirarsi totalmente. I suoi pensieri vagheggiavano per ancorarsi ad altre cose. Qualunque altra cosa.

C'era silenzio, un silenzio tirannico, e sebbene si stesse allontanando sempre di più da quel luogo dalle temperature bassissime, in lei c'era un gelo che non la voleva abbandonare.

Odiava quella situazione di bilico tra loro, odiava che l'avesse creata lei, odiava che lui avesse scelto il sedile di fronte e che non l'avesse guardata neanche un attimo da quando avevano lasciato il maniero. Odiava quel silenzio.

Ad Hermione non piaceva il silenzio, non quel tipo di silenzio. Quello era un silenzio assillante, un silenzio che ti mangiava l'interno. Non lo sopportava.

Perché Hermione li conosceva bene quel tipo di silenzi: erano gli stessi che opponevano i suoi quando in televisione si sentiva di un altro babbano scomparso, erano quelli che cadevano a Villa Conchiglia quando scappava di tanto in tanto il nome di Fred, era lo stesso di Harry quando indossava l'Horcrux, ed era quello suo che si imponeva quando cadeva nella solitudine delle sue mura.

E allora a casa sua prendeva il telecomando e spegneva la televisione per raccontare qualcosa di bello ai suoi, si tirava Molly e se la portava al piano per suonarle qualcosa, s'era presa Harry da parte e se l'era messo lei il medaglione, prendeva il lavoro quand'era da sola a casa e svagava la mente.

Lei straparlava perché lo voleva riempire quel silenzio, perché le faceva male, e ormai era diventata un'abitudine assillare la gente per sovrastare quel silenzio che dentro di lei era perenne, e assai più assillante.

Lo voleva ingannare quel silenzio, voleva essere più furba di lui, più veloce e più scaltra, così che non l'avesse potuta raggiungere.

Talvolta ci riusciva, anzi, la maggior parte delle volte gliela faceva franca, ma stavolta non l'ebbe vinta, non ci riusciva neanche ad aprire le labbra per dire qualcosa. Qualunque cosa.

Aveva le mani legate, perché quel silenzio stavolta era stato più furbo di lei, più veloce e più scaltro. Aveva riempito sino all'ultimo centimetro della sua mente, e non c'era più modo di poterlo deviare. Gliele aveva compresse le labbra.

Non si trattava più della voce del giornalista al telegiornale, non si trattava di una parola di troppo scappata da Arthur, non si trattava di un'oggetto che poteva essere tirato via dal collo di un amico, non si trattava di una solitudine interna da cui si poteva scappare.

Era stata colpa sua dopotutto, lei aveva scaturito quello. E quella stessa colpa le aveva tappato le labbra.

E cosa avrebbe dovuto richiedergli poi? Di parlarle di nuovo? Di riposare gli occhi su di lei anche se fosse stato uno sguardo di disprezzo? Di urlarle contro e di dirglielo che era un'idiota e che era stata tutta colpa sua?

Perché questo probabilmente ne sarebbe uscito, ma a lei andava bene, le sarebbe andato bene anche così. Bastava che non la ignorava e che non continuasse a mantenere quelle distanze, che parlasse, che le dicesse qualunque cosa piuttosto che ostentare quel maledetto silenzio. La stava torturando.

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