56. Nikolaus

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Il viaggio di ritorno fu permeato da un silenzio pesante e opprimente, Katharina, seduta accanto a me, aveva lo sguardo perso in un punto imprecisato del paesaggio che scorreva indistinto e lontano al di là del vetro. Tra le mani ancora stringeva con forza la piccola scatoletta che le aveva dato sua madre e vi ci si aggrappava come se quell'oggetto, minuscolo quanto pesante, avesse il potere di cambiare il corso degli eventi.

Rispettai il suo silenzio, nonostante avvertissi una sorta di trepidazione strisciarmi sotto pelle. Katharina non era l'emblema della chiacchierata continua e logorroica, forse più il contrario, ma in quei giorni si era chiusa in un mutismo quasi totale di ricordi e dolore. Era il suo modo di elaborare il lutto, eppure non potevo fare a meno di preoccuparmi. Aspettavo il crollo, sapevo che sarebbe arrivato, doveva arrivare, ma dopo tre giorni Katharina ancora non mostrava segni di cedimento e avevo l'impressione che avesse innalzato un'altra barriera attorno a sé. Voleva proteggersi dalle emozioni che rischiavano di ferirla, ma certe ferite, una volta passato il dolore, ci rendono solo più forti.

Quando parcheggiai nel garage semibuio, mi voltai verso di lei, che stava già scendendo e che continuava a tenere stretta la scatolina. Non l'aveva lasciata andare da quando la madre gliel'aveva consegnata, ma non l'aveva neanche aperta e, quando il suo sguardo, vi si posava sopra, la fissava come se fosse un peso insopportabile.

«Non sei obbligata ad aprirla, Kat.» Le dissi appena entrammo in casa, forse, nonostante in quei tre giorni non l'avesse fatto, in un luogo protetto sarebbe riuscita a elaborare quelle emozioni che tanto la stavano angosciando. In teoria non era cambiato nulla, in pratica l'oggetto consegnatole dalla madre sembrava aver cambiato qualche carta in tavola.

Si lasciò cadere stancamente sul divano e puntò gli occhi su di me, per un momento intravidi perfettamente il conflitto nei suoi occhi, era una lotta tra il desiderio di sapere e la paura di ciò che avrebbe potuto scoprire. Le sue dita tremavano leggermente mentre continuava a rigirare la scatola, il suo respiro si era fatto più affannoso.

«Non devi farlo per forza.» Ripetei per far arrivare meglio il messaggio.

«Non lo so...» Sussurrò, e la sua voce si spezzò. «Non so se voglio sapere cosa c'è dentro. Non ora.»

«Va bene.» Mi sedetti accanto a lei. «Non c'è fretta. Quando ti sentirai pronta, lo farai. Non devi farlo oggi, se non vuoi.»

Un po' della tensione sembrò scivolare via, mentre le prendevo dalle mani l'oggetto di legno che la destabilizzava così tanto. Non l'aprii, era un gesto che spettava a lei, ma la poggiai sul tavolino vicino al davano, poi le posai un braccio intorno alle spalle e la tirai più vicina, lei si appoggiò al mio petto, chiudendo gli occhi per un momento.

«Ti va se metto un po' di musica?» Le chiesi dopo un po' con voce dolce, quel silenzio cominciava a snervare anche me e speravo che la musica potesse avere lo stesso effetto benefico che aveva sempre e la portasse via dai suoi pensieri, anche solo per un po'.

Katharina annuì senza aprire gli occhi e si sistemò un po' meglio vicino a me.

«Grazie.» Mormorò a voce bassa.

Poco dopo, la playlist che lei stessa aveva creato per le nostre giornate in ufficio giunse a rendere più leggere le preoccupazioni. Finalmente Katharina lasciò andare la tensione e, dopo giorni, si rilassò.

Rimasi lì con lei, accarezzandole i capelli, mentre la musica riempiva l'aria di note morbide. Volevo che quel momento durasse, che potesse trovare un po' di pace.

«Non sei sola, Kat.» Le sussurrai, il mio viso vicino al suo. «Io sono qui. Sempre.»

Lei strinse la mia mano con più forza, come se le mie parole le dessero la forza di affrontare le sue paure. Volevo dirle che avremmo affrontato tutto insieme, ma la realtà era che non potevo sapere cosa stesse attraversando la sua mente.

Le canzoni fluirono una dopo l'altra, ogni tanto Katharina apriva gli occhi e mi guardava con un'espressione che alternava gratitudine e tristezza. Sapevo che dentro di lei stava combattendo una battaglia silenziosa, e la musica era solo un modo per alleggerire il carico, anche se temporaneamente.

«Appena troviamo tre giorni per scappare, torniamo a Roma.» Iniziai, cercando di riportare alla mente un ricordo felice. «E stavolta, signorina, le ruberò una foto sotto al Colosseo perché altrimenti come facciamo a farci riconoscere, dopo il suo commento sulla pasta?» E poi scimmiottai le sue parole. «Quindi qui non si trova la pasta già cotta e solo da riscaldare? Non sono più buone di quella che si fa a casa?»

Katharina scoppiò a ridere, e quel suono il suono fu come un balsamo per la mia anima, era la prima volta che la sentivo ridere dopo giorni.

«Quella ragazza mi voleva uccidere!» rispose, un sorriso timido apparso sulle sue labbra.

«Come darle torto, avevi appena detto quella che per lei era una blasfemia.» Dissi con una mezza risata. Katharina ora sembrava meno distante, e i suoi occhi, pur con un velo di tristezza, brillavano di una lucentezza che non avevo visto da giorni.

Mi chinai verso di lei e, tornando serio, le sussurrai:

«Sai, non devi affrontare tutto da sola. Io ci sarò sempre per te, anche quando la vita diventa complicata. Non sei sola, Kat. Ti prometto che sarò al tuo fianco in ogni passo di questo percorso.»

Katharina mi dedicò uno sguardo penetrante.

«Lo so, Nik. Nonostante tutto questo minaccia di schiacciarmi, so che tu sarai ci sarai per me.» Ammise e la vulnerabilità con cui pronunciò quelle parole mi strinse il cuore.

«Prendiamo un giorno alla volta. E se un giorno ti sembra insopportabile, se hai bisogno di piangere, di arrabbiarti o semplicemente di stare in silenzio, io sarò qui, non ti lascerò cadere.» Replicai accarezzandole una guancia e Katharina si lasciò andare a un lungo sospiro, come se avesse assorbito davvero ogni mia parola.

Dopo quel breve scambio, furono di nuovo le note a fare da protagoniste indiscusse del silenzio, ma ora il corpo di Katharina era molle contro il mio e io, sovrappensiero, continuavo a giocare con le sue ciocche di capelli.

La scatoletta, quella piccola e misteriosa presenza che aveva dominato la nostra giornata, era rimasta sul tavolino. Ogni tanto, gettavo uno sguardo verso di essa, chiedendomi cosa contenesse, ma non era la mia chiamata, era di Katharina, e l'avrebbe affrontata quando fosse stata pronta.

Poco dopo, quando mi accorsi che il suo respiro si era fatto più pensate, abbassai lo sguardo su di lei. Avevo ragione, aveva finalmente ceduto al sonno, che nelle ultime notti stentava a venire a trovarla, e, così rannicchiata, sembrava ancora più fragile di quel che mostrava. Un senso di protezione mi invase, avrei voluto tenerla lontana da qualsiasi altro dolore che il futuro potesse riservarle.

Non potevo cambiare il passato, né potevo cancellare il dolore che stava provando, ma potevo esserci, se fino a quando non avevo scoperto di Adam aveva affrontato tutto da sola, promisi a me stesso che avrei fatto di tutto perché non dovesse farlo di nuovo, per nessun motivo.

Con un ultimo sguardo alla scatoletta sul tavolino, chiusi gli occhi anch'io, provato dalle ultime ore.

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