Capitolo 3.

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Sussulto quando vengo scossa all'improvviso dal sonno in cui ero sprofondata, e i primi occhi che incrocio sono quelli del mio vicino. L'uomo sulla trentina a cui circa otto ore fa ho stritolato la mano in maniera forse eccessiva, adesso sembra scrollarmi con la stessa veemenza, guardandomi divertito da sopra i suoi spessi occhiali bianchi.
«Siamo arrivati!» annuncia con un sorrisetto beffardo, soddisfatto di essersi preso la sua vendetta. Sono ancora troppo confusa ma, con occhi cisposi di sonno, gli lancio uno sguardo fulminante. Se riuscissi a connettere il cervello con il resto del corpo, una sberla non gliela toglierebbe nessuno. A riportarmi alla realtà è la voce metallica degli altoparlanti che invita i passeggeri a lasciare il velivolo in diverse lingue, e prima che venga travolta dagli impazienti che non vedono l'ora di scendere, afferro la mia borsa. Ero quasi sul punto di dimenticarla, e non oso immaginare cosa avrei fatto senza il mio cellulare, le cuffie e "Cime Tempestose".
Appena sono fuori dall'aereo, cerco mio padre con lo sguardo. Mi sale un nodo alla gola e al pensiero che possa essersi dimenticato di me, oppure che sia tra la gente a vagare invano, in cerca di una figlia che non sa riconoscere, che non sente più sua.
Me ne rimango lì impalata, nel tentativo di trovare dei tratti familiari in ogni volto che incontro, e quando finalmente, aguzzando gli occhi, intravedo i capelli brizzolati, i suoi occhi scuri incorniciati da quelle rughe proprie di chi ride spesso, sento il cuore scoppiarmi di gioia. Non posso crederci; lo sto rivedendo dopo due anni, e solo adesso mi rendo conto di quanto mi sia effettivamente mancato in tutto questo tempo. Mi precipito verso di lui sgomitando tra la folla che si è creata nell'aeroporto e guadagnandomi qualche occhiataccia di troppo senza neppure preoccuparmi di chiedere scusa. Non mi importa più di nulla finché non sono da lui, e appena lo raggiungo mi fiondo tra la sue grandi braccia dimentico tutto. Dimentico Stacy e Ben, dimentico le note a scuola, dimentico la denuncia scampata, dimentico il viso deluso di mia madre. Dimentico e sto bene. Sto bene, per davvero, dopo tanto tempo, ed è solo grazie al mio eroe, quello che da piccola mi salvava dai brutti insetti e dai mostri sotto al letto, adesso mi salva da quelli veri.
La sua risata mi costringe a staccarmi da lui.
«Hayley!» esclama squadrandomi da capo a piedi, con un sorriso smagliante. «Quanto è cresciuta la mia bimba!»
Io rido forte mentre lui mi porta a fare una piroetta su me stessa per guardarmi meglio. «Sei bellissima» sentenzia poi leggermente commosso.
«Andiamo papà, non vorrai metterti a frignare proprio ora!» lo stuzzico. Lui sghignazza e mugugna qualcosa del tipo «Sempre la solita...» mentre ritira il mio bagaglio dal nastro trasportatore. Mi ero quasi dimenticata di quanto fossero belli i nostri momenti di complicità padre-figlia. In lui ho quasi sempre trovato l'alleato che mia madre non era.
Gli chiedo di farmi portare il mio trolley, ma lui insiste e cammina spedito fino a giungere ad un auto apparentemente costosissima è nuova di zecca.
«Una jeep?» chiedo sbigottita, cercando di mascherare parte del mio stupore con una misto di allegria e meraviglia. Non ricordavo che questo fosse il suo genere di macchina.
«E non una qualsiasi, bensì la Grand Cherokee!» precisa dal bagagliaio.
Dal modo in cui l'ha detto capisco che si tratta di uno degli ultimi modelli, e un po' rimango interdetta, perché il Samuel Mitchell che conoscevo non si sarebbe mai preoccupato di fare un acquisto del genere, dal momento che l'avrebbe considerato "uno spreco di soldi e un inutile tentativo di ostentare la propria ricchezza".
Mi accomodo sul sedile e l'ascolto mentre mi spiega che casa sua si trova al centro di Toronto, circa a 27 km da dove ci troviamo ora, e quindi ci impiegheremo una mezz'oretta. Nel tragitto mi anticipa, con un po' di nervosismo ed agitazione, che nella piccola villetta avrò il piacere di conoscere anche la sua compagna, Ashley, che convive con lui da qualche mese. Io forzo un sorriso e lo informo di essere già a conoscenza della sua nuova vita, per mezzo di mia madre, che me l'aveva annunciato riluttante. Il divorzio l'ha scossa parecchio, e nonostante la sua sofferenza, ho sempre provato a non farne una colpa a mio padre. La loro separazione non ha avuto su di me l'effetto che di solito ha sulla maggior parte degli adolescenti, sebbene mia madre creda che sia stato proprio questo la causa del mio periodo da ribelle. Invece no, a dire il vero l'ho presa parecchio bene. Mio padre tre anni fa fu trasferito a Toronto per motivi di lavoro, e mi ero abituata alla sua assenza quando, dopo un anno, chiese a mia madre di farla finita, date le continue discussioni dovute alla distanza. Io ho compreso la sua scelta, e anche il suo bisogno di riavere accanto una persona che gli dia amore. Non mi sono mai chiesta, in realtà, se sia stata questa Ashley la vera ragione della fine del matrimonio dei miei, né tantomeno voglio saperlo. Non voglio veder alterato il ricordo della mia famiglia perfetta, che custodisco con infantile gelosia. Perciò va bene così, preferisco continuare a stare bene nella mia non conoscenza.
I 30 minuti volano velocemente, mentre io e papà ci divertiamo a cantare insieme dei brani dei Pink Floyd proprio come facevamo una volta, e vorrei che fossero durati di più quando parcheggia il suo fuoristrada all'esterno di una casa simile a quelle circostanti. Non sembra molto grande, e la preferisco così; di dimensioni normali e con un'accogliente facciata in legno. Un susseguirsi di finestre in vetro con archi a mensola affacciano sul piccolo giardino, e riconosco il gusto classico di mio padre nelle sfumature di bianco e grigio che caratterizzano la villetta. Nel suo vestito di apparente semplicità, noto che ogni dettaglio è stato curato alla perfezione dalla vena ingegneristica di mio padre, e in questo contesto, persino l'edera che ricopre il davanti dell'abitazione le conferisce un'aria poetica, anziché trascurata.
Lo guardo soddisfatta. «Davvero carina» commento appagata. Lui leva gli occhi al cielo e mi sorride fiero di sé stesso, poi mi conduce all'ingresso, dove ad aspettarmi c'è un'affascinante donna sulla quarantina.
«Sei davvero tu, Hayley!» mi abbraccia leziosa, facendomi quasi soffocare a causa delle grandi quantità di profumo e gioielli che ha indosso.
«Ashley, presumo.» forzo un sorriso, pregando all'istante che mi si tolga dinanzi agli occhi il prima possibile, perché non tollero molto le moine e le smancerie che, al contrario, questa donna sembra tanto amare. Invece no; è sempre lei ad offrirsi di mostrarmi le casa, aggiustandosi di tanto in tanto i pomposi capelli biondi tinti e accompagnando ogni frase con un «tesoro!», «dolcezza!», di troppo.
A fine giro turistico, nonostante mi abbia mostrato solo un bagno, la cucina, il salone e una camera da letto, sento già che farò fatica ad andare d'accordo con lei.
«Allora, zuccherino, ti è piaciuta la casa?» chiede guardandomi con quegli occhi ricoperti da quintali di ombretto, eye-liner e mascara. Non so perché, ma quello sguardo ha un che di inquietante e falso, ed è come se con esso mi stesse minacciando ad annuire.
«Sì, ho già detto a papà che mi sembra molto carina»
Noto un certo fastidio alla parola "papà", perciò, per il resto del discorso basato sulle bellezze del Canada, non faccio altro che ripetere che mio padre me ne ha parlato, e sì, il mio papà ha sempre ragione; su queste cose non si sbaglia mai. Non che io voglia mettermela già contro, però mi diverte vedere il tic che la porta a storcere la bocca— anch'essa ovviamente truccata con rossetto rigorosamente rosso e matita abbinata—ogni volta che sottolineo di essere figlia del suo amato.
Quando mio padre rientra in casa, lei me la fa pagare baciandolo subito.
«Samuel,» gli fa assaporando il nome con quella sua lingua biforcuta «tua figlia è davvero una ragazzina dolce e simpatica»
«Lo stesso vale anche per lei, Ashley» aggiungo con lo stesso tono e rivolgendo loro un sorriso falsissimo.
«Vedo che già andate d'accordo!» esclama mio padre, in tutta la sua stupidità.
«Già.» si affretta a dire la vipera. «Sicuramente si troverà benissimo anche con Alison!»
«Chi è Alison?» domando confusa.
Nessuno mi ha detto che ci fosse una terza persona con loro.
Di tutta risposta alla mia domanda, una voce all'ingresso grida «Mamma, Samueeel, sono a casa!», e una figura snella e slanciata si avvia nel salotto in cui siamo anche noi, poggia le chiavi su una mensola, e quando si accorge della nostra presenza ci guarda attonita.
«Eccola qui! Alison, ti presento Hayley, la figlia di Samuel», incalza Ashley facendo avvicinare la ragazza. «Trascorrerà il resto dell'estate qui, e dovrete condividere la camera.»
Giusto; quell'arpia prima ha pensato bene a non mostrarmi una stanza, lasciandomi un dubbio riguardo a dove avrei alloggiato, solo per riservarmi la sorpresa alla fine. Quanto la odio.
«Ovviamente non credo ci saranno problemi!»
Io e Alison continuiamo a studiarci a distanza, senza esserci neppure salutate formalmente. Mi meraviglio di come mio padre e quella donna abbiano anche solo potuto definirmi carina, dal momento in casa con loro vive praticamente una fotomodella. Alison ha lunghi capelli di un castano scuro tendente al nero, perfettamente lisci, che le arrivano fino al sedere e incorniciano un volto piccolo e grazioso. La sua carnagione è più scura della mia, olivastra direi, e ben si intona con quegli occhi scuri con cui adesso mi sta squadrando, un sottile sopracciglio inarcato. Se non fosse per il suo fisico magro quanto quello di un'attrice e il suo metro e settanta di altezza con cui mi sovrasta in tutto il suo splendore, non noterei alcuna somiglianza tra lei e Ashely.
Non posso fare a meno di guardarmi e sentirmi una nullità rispetto alla bellissima ragazza che ho di fronte.
Mentre io ero intenta ad autocommiserarmi, la compagna di mio padre non ha fatto altro che elogiare me e al contempo sua figlia, farneticare qualcosa su quanto andremo d'accordo, dati i nostri mille interessi comuni. Alison regala a tutti i presenti smaglianti sorrisi, e quando Samuel le parla della mia passione per la musica e per il disegno, lei si stupisce e meravigliata mi chiede persino di farle un ritratto. Gioco la sua stessa carta, comportandomi in maniera leziosa ed assicurandole che lo farò sicuramente, siccome avremo un'estate intera per stare insieme. Il discorso tra noi quattro non è altro che uno scambio di falsi e smielati complimenti, e dopo un quarto d'ora di sorrisi e annuii, Ashley decide di condurci nella camera che prima non mi ha mostrato. Saliamo le scale e facciamo il nostro ingresso nella prima stanza a destra. Le pareti di un fucsia scuro mi feriscono subito gli occhi, e scruto con un certo sdegno i poster appesi che ritraggono le celebrità del momento senza maglietta. Non c'è nulla, in questo posto, che mi dica chi sia realmente Alison, e nonostante l'esplosione di colori che lo caratterizza, esso è vuoto quanto la mia, di stanza. Forse ci somigliamo più di quanto io creda. Poi il mio sguardo si posa sul letto. Un unico, stupido letto da una piazza e mezzo. Deve essere uno scherzo.
«Sì Hayley, fino a quando non troveremo una soluzione migliore, sarà questa la tua stanza. È un bene che tu e Alison condividiate anche il letto...legherete ancora di più!» m'informa mio padre, come se mi avesse letto nel pensiero. Osservo Alison contenere la rabbia e mascherarla con un sorriso di plastica, mentre esclama «Evviva!».
I due piccioncini si scambiano un ghigno complice, e poi annunciano di volerci lasciare da sole, così che possiamo provvedere alle nostre cose senza alcun disturbo. Vorrei pregar loro di restare, di non lasciarmi in un imbarazzante silenzio che si creerà appena usciranno. Eppure, contro ogni aspettativa, non regna alcun silenzio, e appena la porta si chiude alle mie spalle, sento una voce dire:
«Ora ascoltami e fa' quanto ti dico, oppure ti distruggo.»

Summer love. ||Shawn MendesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora