Capitolo 20.

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Il cielo di Toronto si è temperato di un azzurro stinto, e quel sole che fino a poche ore fa baciava i grandi palazzi che si stagliano dalla Down Town in lontananza, conferendo loro maggiore luminosità, ora sembra essersi fatto da parte per lasciare spazio a qualche nuvola di troppo. Lo scurirsi del manto che ci avvolge mi mette un certo nervosismo, ma in realtà non so se la mia ansia sia dovuta al cattivo tempo o al ragazzo che, camminando a fianco a me a testa bassa, pare contagiare ogni cosa con la sua inquietudine.

Gli occhi di Nash sono diventati dello stesso colore scialbo del cielo, e quando ci ritroviamo in una delle zone più fiorenti della città, facendoci strada tra le persone che circolano sempre in gran quantità sul marciapiede, mi chiedo se anche su di lui il clima abbia lo stesso effetto che ha su di me.

«Allora...?» lo incalzo accantonando i miei pensieri.

«Allora cosa?» fa lui scalciando un sassolino dalla via. Il suo passo lento non sembra infastidire solo me, ma anche un signore sulla cinquantina in giacca e cravatta che lo supera con una spallata, sbuffando stizzito qualcosa sui giovani d'oggi.

«Devi raccontarmi tutto.» gli ricordo inarcando un sopracciglio.

«Potrei mentirti.» mi fa notare lui con lo stesso tono, rigirandosi le mani nelle tasche.

«Hai promesso di fare il tragitto con me fino a casa proprio per spiegarmi ogni cosa.» ribatto, sentendo un accenno di rabbia montare. «Quindi, credo sia tuo dovere mantenere la parola.»

Nash rimane in silenzio, con lo sguardo fisso a terra, gli occhi assottigliati verso un punto imprecisato sotto di lui.
La via del ritorno non è mai stata così lunga.

Gli schiamazzi delle ragazze che si accalcano in un negozio d'alta moda vicino a noi, il parlottare fitto di un gruppo di turisti asiatici alle nostre spalle e il rumore costante delle macchine che sfrecciano sull'asfalto riempiono il silenzio che si è creato tra me e il ragazzo dagli occhi azzurri. Scuoto il capo amareggiata; avrei dovuto immaginare che erano tutte fandonie, le sue.
Nash non sarebbe mai stato così onesto da confessare tutto.

«Lo sapevo.» sogghigno, guadagnandomi un suo sguardo interrogativo. Adocchio la macchina gialla in lontananza e porto automaticamente la mano alla mia borsa; dovrei avere abbastanza soldi per farmi lasciare almeno a metà strada. «Taxii!» urlo quindi, sbracciandomi tra i passanti nella speranza che il conducente mi noti. Faccio per avanzare in strada, guardando meccanicamente a destra e poi a sinistra, ma prima che possa mettere piede in carreggiata, Nash mi afferra per il braccio.

«Aspetta!» urla.

Io aggrotto le sopracciglia. «Cosa vuoi?» mi volto appena verso di lui.

«...perché l'hai fatto?» chiede serio.

Io lo fisso come se la risposta sia più che ovvia. «Forse perché non mi va di fare la strada con te, e quindi preferisco prendere un taxi?» domando retorica.

«No.» Nash scuote la testa, spazientito. «Perché mi hai coperto, davanti alla signorina Olden?» scandisce bene le parole e mi scruta intensamente con quegli occhi azzurri.
Sono incredibili; sembrano davvero il mare. Così belli e chiari, ma allo stesso tempo tanto profondi e oscuri da mettere quasi paura.

Distolgo lo sguardo, intimata da quell'occhiata magnetica. «Non volevo che venissi licenziato.» è la mia semplice risposta, accompagnata da una scrollata di spalle.

Summer love. ||Shawn MendesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora