11. Un cuore vuoto

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11. Un cuore vuoto

Charlotte si era svegliata da qualche ora, ma era comunque debole e senza forze. Nonostante Ellen mi avesse assicurato che fosse normale, non ero per niente tranquilla.

Erano più o meno le nove di sera quando la piccola si addormentò di nuovo.
Poco tempo prima, un medico mi aveva detto che lei sarebbe dovuta restare in ospedale per il resto della notte, poiché volevano assicurarsi che tutto andasse per il verso giusto. Apprezzavo il fatto che loro volessero essere sicuri che Charlotte stesse bene, ma quella notizia non mi rallegrò.

Non potevo immaginare la casa senza di lei, senza il leggero rumore dei suoi passi quando la notte si infilava nel nostro letto o senza il disordine che creava ovunque. Non potevo pensare ad una casa senza i suoi disegni attaccati al frigorifero, senza la sua voce quando mi chiamava per giocare assieme a lei, senza il suo sorriso.

"Non hai intenzione di andare a casa, vero?" mi domandò Justin entrando.

Negai ripetute volte e lui roteò gli occhi.
"Come immaginavo" ribattè.

Mi cinse i fianchi e lanciò un veloce sguardo a Charlotte.
"So che non andrai a casa finché lei non tornerà, però ti farebbe bene. Vai a casa e fatti un bel bagno caldo, quelli con tanta schiuma, come piacciono a te" mi sussurrò. Appoggiai la testa sulla sua spalla e chiusi gli occhi un secondo.

"Starò io con lei" continuò "non preoccuparti".

"No, voglio restare" conclusi.

Justin mi guardò e sospirò.
"Allora va bene".

***

L'aria su quella piccola terrazza era fresca e viva, il leggero vento mi spostava i capelli di qua e di là, eppure le foglie degli alberi erano immobili.

Il cielo quella sera era limpido, ma si potevano scorgere poche stelle.
Alcune volte, un'ambulanza usciva con le sirene accese, per poi tornare con un uomo in più.

"Non posso crederci" risi ancora. "Non può essere vero".

Justin continuò a ridere, poi abbassò la voce per non essere sentito.
"Te lo giuro" proseguì. "Li hanno beccati a fare sesso nello sgabuzzino delle scope. È stato imbarazzante, ma divertente".

Risi un'ultima volta, poi sbadigliai. Era l'una di notte, non avevo dormito nemmeno per un minuto e la stanchezza iniziava a farsi sentire.

Inoltre, forse quello era il momento giusto di dire a Justin cosa avevo iniziato a notare già da un po' di tempo. Non volevo però distruggere quel momento di tranquillità che si era creato, ma non potevo tenerlo per me ancora per molto.

"Già da un paio di giorni" farfugliai "provo le stesse emozioni che provavo in passato: quella sensazione di angoscia che ti divora l'anima, quel brivido di paura che ti percorre la schiena e quella mancanza d'aria che compare all'improvviso".

Justin sospirò e guardò dritto davanti a sé.
"Credo sia normale che in momento negativo come quello che stiamo affrontando questo problema ritorni" sospirò. "In realtà lo avevo già notato da un po' di tempo".

"Lo sapevi già?" domandai stupita.

Justin annuì.
"Ciononostante quando tutto questo sarà finito, gli attacchi di panico scompariranno. Non preoccuparti" concluse.

"Lo spero" sospirai "credevo di aver superato questo problema".

Justin mi tranquillizzò, anche se le sue parole non servirono più di tanto.
Lanciai un veloce sguardo all'orologio che tenevo al polso e solo allora comperesi quanto il tempo fosse passato in fretta.
"Torniamo da Charlotte? Magari si è svegliata".

Justin annuì lentamente.
"In realtà dubito che lei sia sveglia" disse ridendo. "Dorme sempre".

Tornammo all'intero dell'ospedale e tutto ritornò come prima; percorremmo un lungo corridoio e ad un certo punto ebbi come la sensazione che le mura stessero per schiacciarmi.

"Pensi che un giorno tutto questo finirà? Che tutto ritornerà com'era prima?" gli chiesi per ottenere un suo leggero sorriso.

"Sì, ne sono sicuro. Ne ho la certezza" ammise prendendomi la mano.

"Che certezza?" domandai speranzosa.

"In Dio" rispose, senza pensarci.

***

Charlotte dormiva ancora beatamente ed io ero rimasta sola sulla sedia accanto al suo letto, poiché Justin era uscito dalla stanza.

Speravo che la mattina qualcuno mi avrebbe detto che potevo riportarla a casa con me. Non avrei potuto aspettare ancora un giorno, se non di più, mi mancava terribilmente.

Avevo sempre amato guardare Charlotte dormire, era così bella. Ogni volta che si addormentava, le guance le si tingevano di un colore roseo e i suoi capelli scompigliati erano qua e là sul cuscino.

La prima volta che portammo Charlotte a casa, dopo pochi giorni la sua nascita, avevo trascorso tutto il giorno a guardarla dormire come un angelo. Era nella mia vita da poco e già l'amavo come non avevo mai amato nessuno.
Quando Justin tornò a casa, la sera, la tenne in braccio per tutto il tempo; lei sembrava così fragile, ma allo stesso tempo era più forte di quanto lo era su quel letto d'ospedale.

All'improvviso una voce mi riportò alla realtà, così fui costretta ad abbandonare il mio stato di trance.
"Scusami?" parlò la donna davanti a me. Era giovane e bella, più o meno sui quarant'anni. Aveva i capelli incredibilmente ricci e biondi, la carnagione piuttosto chiara, ma gli occhi scurissimi.
Era in piedi davanti a me, con un foglio in mano e con uno sguardo concentrato a studiare tutti i dettagli del mio viso.

"Sei sua mamma?" mi chiese con un movimento del capo.

Le risposi e, subito dopo, controllò il suo foglio. Con stupore, vidi il suo sguardo addolcirsi e rilassarsi.
"Mi dispiace, ma la notte non si può restare nelle stanze dei pazienti. È la regola".

Guardai Charlotte e sospirai, portandomi una mano sul viso.
"Sa dirmi almeno quando potrà ritornare a casa?" chiesi speranzosa.

La donna alzò le spalle.
"Non lo so, sono solo un'infermiera".

Annuii lentamente e in quel momento Justin entrò dalla porta, la donna si sorprese nel vederlo.
"Perché sei qui anche questa notte?" gli chiese l'infermiera, curiosa. "Non dovresti essere a casa?"

Justin si avvicinò a noi lentamente e abbassò lo sguardo. Nella stanza c'era un silenzio imbarazzante e poco dopo anche l'infermiera si rese conto del perché.

"Lei è mia figlia" rispose Justin semplicemente, ma questo bastò per togliere un altro dei pochi pezzi che ormai componevano il mio cuore.

"Comunque lei può restare qua dentro, lo ha detto Ellen" continuò alludendo a me.

L'infermiera abbassò lo sguardo imbarazzata e guardò negli occhi prima Justin e poi me. Infine, con lo stesso silenzio con cui era entrata, se ne andò.

"Qualla donna è un po' strana" spiegò Justin. "Non parla quasi mai con nessuno ed è sempre nel suo mondo. Se ti crea qualche problema, dimmelo".

Annuii e mi misi seduta sulla sedia. Sospirai pesantemente e guardai di nuovo Charlotte, anche se comportò qualche lacrima.

"Ti prego, non piangere" disse Justin abbracciandomi. "Tutto questo finirà molto presto, te lo prometto".

Prima di sapere della malattia della bambina, il mio cuore brillava.
Erano Justin e Charlotte che mi rendevano felice, loro due erano il mio sorriso. Mi completavano e con il loro amore colmavano il mio vuoto. Loro erano il mio passaporto per la felicità, mi facevano toccare il cielo anche se ero a terra, ma nonostante il loro amore, in quel momento, il mio cuore si spegneva.

Forse allora nemmeno l'amore resta vivo per sempre, forse al buio del tunnel nemmeno lui si riesce a percepire. Pensavo la notte, mentre dentro di me qualcosa cambiava. Stavo facendo dei passi indietro o forse stavo facendo una corsa all'indietro. Sentivo tutto tornare come prima, come se non fosse mai cambiato niente e come se il dolore mi stesse abbracciando contro il mio volere con le sue braccia di fango.

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