24. Illusioni e delusioni

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24. Illusioni e delusioni

Se qualche mese prima mi avessero detto che sarei tornata in quella casa di mia spontanea volontà non ci averei mai creduto. In realtà, non ci credevo nemmeno quando ero nel taxi che mi avrebbe accompagnato in quel luogo pieno di ricordi e dolori, dopo anni interi.

Ero perfettamente consapevole di cosa avrebbe significato ritornare in quella casa, quel luogo sinistro in cui mi ero lasciata distruggere, eppure appena mio padre mi propose di andarci con lui, con la scusa di recuperare alcune cose che avevo lasciato, non riuscii a rifiutare.

Il viaggio in taxi fu silenzioso ed infinito; in quella vettura compresi che ciò che stavo facendo era reale e con la stessa consapevolezza di un condannato a morte non feci altro che aspettare di arrivare al patibolo.

Solo di una cosa ero certa: non ero pronta per ritornare nel luogo che aveva segnato profondamente una parte importante della mia vita. La scelta di tornare in quella casa mi avrebbe distrutto completamente e, dato il difficile periodo che stavo affrontando, non era decisamente quello che ci voleva.

Riconoscendo le strade e i negozi capii che ci stavamo avvicinando sempre di più; l'ora della mia distruzione stava arrivando. Quella sarebbe stata la goccia che fa traboccare il vaso, il coltello nella piaga, la mia rovina.

Non ero pronta ad affrontare così brutalmente i miei incubi, non lo sarei mai stata, eppure l'orgoglio aveva vinto su tutto, anche su ciò che non si può vincere.

Sentii un peso sul petto, l'aria era asciutta e mi girava la testa. Solo quando il taxi si fermò e mio padre tirò fuori il portafoglio per pagare il viaggio realizzai di essere arrivata.

Continuai a fissarmi le scarpe, non avevo il coraggio sufficiente per guardare fuori dal finestrino.

Mi odiai immensamente per aver accettato la proposta di mio padre, odiai me e il mio orgoglio, lo stesso che mi spinse ad uscire dal taxi non appena mio padre fece lo stesso. Stando nella clinica, lui tornava raramente a casa. Ormai quella non era più la casa di nessuno.

Cercai disperata il sole tra le nuvole pesanti e opprimenti di cui il cielo era carico, ma nemmeno un misero raggio di luce solare quel giorno aveva deciso di accompagnarmi in quella folle corsa all'indietro.

Sentii il taxi sgommare via e quando, dopo aver alzato lo sguardo lentamente, vidi l'imponente edificio davanti a me un brivido di terrore mi attraversò la schiena. Ero così piccola difronte a quella casa e a tutto il resto. Per un attimo sperai che fosse un sogno, o meglio un incubo, e di svegliarmi in qualsiasi posto, ma non lì.

Nonostante le gambe mi tremassero, riuscii a fare qualche passo in avanti e ad arrivare accanto a mio padre. Volevo dirgli di andare via: volevo confessargli la verità. Volevo dirgli che non ero forte come lui credeva e distruggere l'immagine che si era fatto di me: una donna forte, coraggiosa, invincibile e indistruttibile, io ero l'opposto e proprio per preservare l'idea che aveva di me accettai la sua proposta.

Supplicai l'uomo con lo sguardo, lo pregai di non farmi entrare in quella casa, ma lui non colse il mio malessere.

Salimmo le scale lentamente: mio padre perché aveva la sua età ed io perché ero una codarda. Ad ogni passo sentivo ogni parte di me farsi sempre più pesante, ormai i miei pensieri avevano preso il controllo del mio corpo. Non ero più io: ero ritornata ad essere le mie paure più profonde.

Ci fermammo davanti alla porta e aspettai che mio padre estraesse le chiavi di casa per secondi che parvero ore. Quando spalancò la porta un odore strano mi avvolse, un odore familiare.

La casa era buia: la poca luce del sole che penetrava le pesanti nuvole nere in cielo non riusciva però a filtrare oltre le finestre e le tende. L'ambiente era talmente buio che per un attimo non riuscii a riconoscerlo, ma quando mio padre accase la luce fu tutto diverso.
Mi guardai attorno: non era cambiato nulla. In quella casa, il tempo sembrava essersi fermato, sembrava non esistere e fu proprio quello che mi mandò in paranoia. Il tempo è l'unica cosa che ci impedisce di sentire le ferite ed è per questo che il tempo che abbiamo non è mai abbastanza.

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