21. La mia medicina

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21. La mia medicina

Dopo il turbolento incontro con mio padre, trascorsi un altro giorno tra i grattacieli di Toronto e le sue enormi vie affollate. Il desiderio di tornare a casa era forte e la lontananza da Justin e Charlotte mi faceva sentire vuota: il mio stato d'animo era in grado di cambiare in base alla loro presenza. Nonostante questa mancanza, lottai contro la loro assenza e rimasi un'altra giornata in quella città, ma non per far riaffiorare vecchi ricordi, non per trascorrere un giorno alternativo e diverso dalla solita monotonia, non rimasi lì per nessuna di queste ragioni. Non presi quell'aereo solo per la persona che nonostante la dimostrazione del mio amore mi aveva rifiutata, mi aveva umiliata e mi aveva fatto sentire sbagliata un'altra volta.

Rimasi davanti al cancello della clinica per più di mezz'ora nella speranza che mio padre volesse parlare anche solo cinque minuti con me, però non si presentò.
Passai nella stessa via in cui si trovava la clinica ben sette volte nel pomeriggio, guardando l'alto edificio e le sue finestre, nella speranza di essere vista da lui. Forse mio padre mi vide, forse non mi notò, ma in ogni caso non parlò con me quel giorno: mi lasciò con i miei dubbi e con i miei rimpianti.

La sera, quando iniziai a sentire freddo, quando le gambe iniziarono a farmi male e quando il mio morale, sconfitto, era sottoterra, tornai nella mia camera d'albergo.
Appena varcai la soglia della stanza, scoppiai in lacrime come una bambina. Mi sentivo usata e presa in giro, un'inutile e una fallita.

Sentivo il mio sentimento d'amore essere disprezzato e dato per scontato, anziché essere fatto tesoro. Eppure, la rabbia era meno profonda rispetto quel sentimento, che - purtroppo - non sarebbe mai cambiato; il mio amore era immutabile ed eterno, ma senza la sua metà.

Non decidiamo chi amare e, molte volte, questa nostra incapacità di sceglire a chi donare il nostro cuore ci fa impazzire.
Se solo potessimo decidere chi amare sarebbe tutto più semplice, se solo potessimo capire chi è degno di ricevere il nostro amore e di trasformarlo in oro, forse dall'amore non nascerebbe la sofferenza. Se solo potessimo essere liberi di scegliere e di controllare la parte più profonda di noi non avremmo più problemi e non dovremmo preoccuparci di tenere a bada il dolore; se solo potessimo domare il sentimento più incontrollabile e folle, se solo potessimo essere liberi da noi stessi.

***

Justin non risultò essere sorpreso dal mio racconto: appena gli spiegai cos'era successo con mio padre, lui si limitò a sospirare.

Justin era sempre stata una persona chiusa, raramente lasciava che gli altri percepissero i suoi stati d'animo: si teneva tutto dentro perché non voleva addossare le sue malinconie e le sue preoccupazioni a chi cercava di capirlo.

"Da un lato immaginavo che andasse a finire così" commentò dopo attimi di silenzio. "Mi dispiace, mi dispiace tanto. So quanto ci tieni a tuo padre e a restaurare un rapporto con lui che, però, non è mai esistito"

Le sue parole, tanto vere quanto difficili da digerire, arrivano al mio cuore fin troppo velocemente, infatti non le compresi all'inizio. Fui in grado di capire il loro significato solo quando, la sera, dopo un'intera giornata a pensare incessantemente, la mia mente si scharì. Tutti i complicati concetti che mi facevano mancare l'aria, se ne andarono come enormi nuvoloni neri spazzati via dal vento.

"So quanto ci tieni a tuo padre e a restaurare un rapporto con lui che, però, non è mai esistito"

Quelle parole rieccheggiavano nella mia mente in modo incontrollato, quasi ossessivo.

In quella stanza d'albergo compresi, per la prima volta, di non aver mai avuto nessun genere di rapporto con mio padre, se non un rapporto di sangue.
È mai possibile voler ricostruire qualcosa che non è mai esistito?

***

La porta della mia camera era spalancata, quindi ogni rumore arrivava alle mie orecchie più potete e vivo: una canzone di Lady Gaga proveniente dallo stereo del bar al piano di sotto, le risate e le vocine acute di alcuni bambini nel corridoio e le conversazioni di due cameriere.

La mia valigia era sul letto, pronta per essere riempita da tutte le cose che mi erano servite in quel breve viaggio in Canada.
Sarei tornata a casa presto e il mio unico pensiero era quello di riavere la mia piccola tra le braccia. Mi mancava svegliarmi e non vederla sorridere o sentire il suono della sua voce, mi mancavano i suoi delicati passi per il corridoio, mi mancava il suo viso, i suoi occhi: mi mancava ogni cosa di lei, tranne la sua malattia.

Dopo l'ultima seduta di chemioterapia, Charlotte iniziò a perdere i capelli e non accadde gradualmente, in modo da farci capire cosa stesse succedendo. Iniziò a perdere i suoi capelli rossi da un giorno all'altro, all'improvviso.

I medici ci avevano rassicurato: la perdita di capelli è un effetto collaterale della chemioterapia. Nonostante le loro parole, sia io sia Justin non volevamo credere che Charlotte stesse davvero perdendo i capelli; avevo sempre temuto questo momento e, dentro di me, speravo che non arrivasse mai.

Amavo alla follia i suoi capelli rossi, mi facevano vedere in lei una me migliore.

Sospirai frustrata e mi morsi il labbro, chiusi la valigia, l'appoggiai a terra e mi concentrai a respirare regolarmente.

Stava succedendo di nuovo.

Tutte le frustrazioni, tutti i pensieri, tutte le preoccupazioni e tutti i ricordi si manifestavano sempre allo stesso modo. Mi facevano ricordare della loro presenza ogni volta che ne avevano l'occasione, facendomi sentire incapace di controllare le mie emozioni e le mie paure.

Spalancai la finestra e guardai attentamente tutto ciò che mi capitava sotto gli occhi, nel vano tentativo di calmarmi e avere la meglio sul mio stato d'animo.

Sotto di me, le persone continuavano a camminare freneticamente, senza nemmeno prestare attenzione a chi gli passava accanto. Tutti impegnati a parlare al cellulare o a tenere la testa bassa; le formiche in un formicaio.

Davanti a me, uno dei tanti grattacieli, tanto immenso quanto finto. Con le sue numerose finestre affacciate su un mondo falso e, grazie alla sua possente struttura, rivolto verso l'alto, quel palazzotto era convinto di poter toccare il cielo, quando era destinato a stare fisso a terra.

Invece, in alto ed intoccabile, c'era un cielo azzurro e con qualche nuvola che si spostava lentamente.
Il cielo, a differenza di tutte le altre cose, era sempre lo stesso: non cambia in base al luogo e neanche in base a come lo si guarda.

Mi passai una mano sul volto; osservare le cose intorno a me non aveva placato la mia ansia e la mia paura, purtroppo.
Strinsi i denti e ordinai a me stessa di resistere, la paura non sarebbe uscita vincitrice da quella battaglia, non quella volta.

Diedi una veloce occhiata all'orologio: era giunto il momento di tornare a casa. Pensando a Justin e a Charlotte, afferrai la valigia e, senza esitare, mi affrettai ad uscire.

Scesi velocemente le scale, con la sensazione del loro abbraccio sulla pelle.
L'uomo dietro al bancone nell'ingresso dell'hotel, dopo avermi riconosciuto, mi sorrise, augurandomi un buon rientro a casa.

Ritornare a casa, pensai tra me e me stringendo la valigia. Ritornare da loro e stringerli tra le braccia era la sola cosa che volevo, era tutto quello di cui avevo bisogno; la mia medicina.

Improvvisamente, mentre camminavo verso l'uscita dell'albergo, sentii qualcuno afferrarmi da dietro e, appena riconobbi il volto di quell'uomo, il mio cuore si riempì di gioia e di paura, ricevendo una scarica di emozioni talmente forte da farmi venire i brividi.

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