33. Quello che accade quando non ci sei

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33. Quello che accade quando non ci sei

Il pianto di un uomo distrutto: era l'unica cosa che potevo sentire provenire dell'altro capo del telefono mentre trascorrevo un'altra notte insonne nel macabro cortile dell'ospedale in cui mia figlia, la quale non aveva fatto ancora in tempo a spegnere quattro candeline sulla torta, era ricoverata a causa della leucemia che la stava facendo morire da più di sette mesi.

Non faceva altro che singhiozzare e pronunciare parole sconnesse senza alcun senso; piangeva come se fosse un bambino che ha appena preso un grande spevento, e in parte era vero. Ero in grado di percepire un briciolo di terrore nel modo in cui singhiozzava, ovviamente assieme a delusione e rammarico.

Mio padre mi stava chiamando da una cabina telefonica, una delle poche rimaste ancora a Toronto dopo l'invenzione dei cellulari. Si trovava nella periferia della metropoli canadese, lontano da casa, lontano dalla Narconon Arrowhead, la clinica in cui lui volontariamente si era fatto ricoverare più di un anno prima a causa della dipendenza dall'alcol. Girava senza meta per la città, quella notte, senza uno spicciolo in tasca e con una ferita alla testa causata da una brutta caduta: due ore prima di quella chiamata, mio padre cadde dal marciapiede, sbattendo la testa sull'asfalto. Per poco non finì sotto le ruote di una macchina, ma io allora ero completamente all'oscuro di tutto ciò.

Sentirlo in quelle condizioni mi faceva star male, soprattutto perché in quel momento si trovava da solo.
Respirai profondamente, impegnandomi ad assumere un tono di voce più duro possibile, anche se ottenni scarsi risultati.

"Cosa succede?" gli chiesi non appena finì di pronunciare una delle tante parole poco sensate che disse nell'arco di quella telefonata.

Lui inizialmente non rispose, si limitò a piangere nel silenzio dettato da un profondo rimorso e forse anche rassegnazione.

"Hai bevuto?"

A quella domanda, scattò immediatamente.
"No, no!" urlò tra una lacrima e l'altra. "Devi credermi"

Nonostante avessi ordinato a me stessa di non credere più a nemmeno una delle sue parole, quella volta lo feci: ero sicura di aver ascoltato la verità. Il motivo per cui stava piangendo al telefono non era concentrato attorno all'alcol, o almeno non solo. In quel momento si trattava di lui, di David Newman, un uomo distrutto e un caso perso come tanti altri individui su questo pianeta. Un uomo che al mondo aveva lasciato davvero poco, quasi nulla, per ricevere in cambio lo stesso. Un uomo povero di spirito, che non credeva né al Dio nei cieli, né al dio denaro e nemmeno ad una bottiglia di vino. David Newman, un uomo solo e triste come pochi conobbi nel corso della mia vita.

"Non bevo da ieri, Genesis" disse in tono triste, "ma sono riuscito a combinare lo stesso un casino". Poi scoppiò di nuovo in lacrime.

Guardai il cielo, privo di stelle, poi guardai al terzo piano dell'ospedale: una luce si era accesa ed era la stanza accanto a quella in dormiva Charlotte abbracciata ad un animale di pezza.

Rimasi in ascolto: avrei saputo il disastro che mio padre aveva combiato solo quando lui stesso avrebbe deciso di dirmelo. Fremevo dall'agitazione, non lo nego, ma volevo aspettare. Non avrei più supplicato mio padre per farmi raccontare la verità ed essere partecipe nella sua vita.

"Ho perso tutto, Genesis" dichiarò dopo un paio di secondi. "Non mi è rimasto niente"

Sospirai frustrata, iniziando a capire la gravità della situazione. Era andato tutto troppo oltre.

"Ti hanno portato via anche la casa?" chiesi, subito pronta a domandargli dove avesse intenzione di passare il resto delle notti, ma non fu necessario.

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