31. I doni dell'alba

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31. I doni dell'alba

Guardare il sole sorgere è uno degli spettacoli più belli ai quali una persona possa assistere. Tale bellezza è appagante, intensa e spettacolare: ogni cosa, fredda e circondata da un'oscurità talmente forte da poterla inghiottire, dopo ore ed ore durante le quali la vita sembra fermarsi, riprende la sua pienezza grazie all'arrivo della luce. Ritorna consapevole di ciò che è; la luce segna un nuovo inizio, uno dei tanti che la vita ci offre in continuazione ma che a volte non siamo in grado di vedere.

L'alba segna un inizio. Essa non è soltanto il ritorno del sole, non è qualcosa in grado di essere misurato con un orologio, bensì una rinascita: un nuovo giorno. Chissà se il sorgere del sole porterà con sé qualcosa di gioioso e saturo di felicità o soltanto una monotona e noiosa giornata, una delle tante che sembrano comporre la nostra vita.

Quello era ciò che mi chiedevo osservando il sole sorgere una fresca mattina di aprile, una delle tante in cui impiegavo il mio tempo correndo. Correre era un ottimo modo per scaricare la tensione, diminuire lo stress e tenere impegnata la mente.

A quell'ora la via era completamente deserta. Davanti a me c'era solo Hough Street, silenziosa e tranquilla com'era qualsiasi strada di Fort Myers a quell'ora del mattino.
Dopo essermi fermata per riprendere fiato, mi appoggiai ad un muretto che delimitava un piccolo edificio che doveva essere una palestra e il marciapiede. Correvo senza sosta da troppo tempo, forse un'ora o di più. Fuggivo da troppe cose: dai problemi di salute di Charlotte, dal pensiero che mio padre fosse ad annullarsi con qualche bottiglia di vino in mano, dal senso di colpa che mi faceva mancare il fiato e da me stessa.

In quel periodo avevo ripreso a dormire poco; la notte sembrava non finire mai. Ero stanca e senza forze, infatti non sapevo quanto ancora avrei retto dormendo solo un paio di ore, eppure gli incubi che facevo erano più forti della stanchezza.
All'inizio, infatti, erano i brutti sogni a svegliarmi a qualsiasi ora. Appena aprivo gli occhi ero spaventata, molte volte terrorizzata da quello che la mia mente era in grado di immaginare. Sognavo di perdere la mia famiglia, sognavo cose orribili che non possono essere raccontate e la maggior parte delle volte non bastava una bevanda calda per farmi smettere di tremare.
Con il tempo, gli incubi smisero di disturbare il mio sonno irrequieto, ma per qualche strana ragione smisi di dormire lo stesso. Iniziai a svegliarmi sempre prima, arrivando a dormire un paio d'ore a notte.

Tra mille pensieri e mille paure, mentre cercavo di riprendere fiato, dietro un colle ancora verde e pieno di alberi, sbucò un abbagliante fascio di luce. Il contrasto tra l'oscurità della notte e la chiarezza del giorno diedero al cielo mille sfumature diverse. Zone chiare si contrapponevano a zone più scure, che con il tempo tendevano a diminuire. Lentamente, il sole diventava sempre più alto nel cielo, luminoso e accecate com'era da tantissimo tempo e come sarebbe continuato ad essere.

Il sole sorgeva, la vita iniziava e ognuno sperava in un giorno migliore. Tutti con le proprie paure, con le proprie insicurezze e con i propri errori incisi sulla pelle, ma con i cuori carichi di speranza, il sentimento che l'alba di un nuovo giorno ci dona, l'unico sentimento in grado di salvare il mondo, l'unico sentimento in grado di tenerci vivi.

***

Erano trascorsi tre giorni dal matrimonio di Meredith e dal momento in cui avevo trovato Charlotte in camera a piangere disperata con il suo stesso sangue che le colava dalla bocca.

Avevo provato a chiamare Meredith più di una volta, ma la sola voce che mi rispondeva era quella della segreteria telefonica. Non sapevo bene perché si rifiutasse di parlare con me, ma in quel momento il fatto che lei mi ignorasse era l'ultimo dei miei problemi.

La situazione di Charlotte non era più critica come quando era arrivata in ospedale, ma non era nemmeno delle migliori. Le sedute di chemioterapia erano aumentate nella speranza che servissero veramente a qualcosa oltre a prosciugarle completamente le forze e privarla dei suoi bellissimi capelli rossi.
Nonostante la situazione non fosse peggiorata, i medici scelsero di farla restare in ospedale giorno e notte, in modo che potessero tenerla sotto controllo. La piccola detestava restare in quel luogo per troppo tempo, come me e Justin odiavamo vederla in un letto d'ospedale tra mille macchinari, ma non c'era altra scelta.
La strada verso la fine del tunnel è lunga, le sofferenze sono talmente tante da far sembrare il viaggio infinito, ma alla fine ne varrà la pena. Se non hai perso la speranza nel nuovo giorno vale la pena fare qualsiasi cosa.

Le uniche cose che rallegravano la piccola Charlotte erano il modo gentile e amorevole con cui medici ed infermieri la trattavano e le visite del suo amico Martin.
Prima della sua permanenza fissa in ospedale, Charlotte e Martin si conoscevano già, ma appena ebbero l'occasione di trascorrere più tempo assieme diventarono inseparabili. Martin, di soli sei anni, soffriva della stessa malattia di Charlotte dal settembre di due anni prima, ma questo problema non gli aveva tolto il sorriso. Era un bambino vivace e solare, sempre pronto a far sorridere chiunque gli stesse vicino e qualcosa mi faceva pensare che non era la sua ingenuità o la sua tenera età a renderlo così, bensì il suo modo di vedere le cose e amare ogni piccola novità. Probabilmente fu proprio Martin ad insegnare a Charlotte a non arrendersi mai.

I due bambini passavano insieme ogni istante della giornata, tranne quando uno dei due doveva affrontare un ciclo di chemioterapia o anche un banale controllo, ma assieme erano una forza della natura.

Durante la quarta giornata che Charlotte trascorse in ospedale, ebbe di nuovo un crollo improvviso. Non erano neanche le nove di sera quando accadde e i dottori furono costretti a darle dei farmaci per farla dormire: si era presa un altro bel spavento.

"Non dovete temere" disse Ellen, quando la bimba finalmente si addormentò. "La situazione non è ottimale, ma non è così critica da farci preoccupare"

La dottoressa, mentre parlava, non guardò me e Justin negli occhi, si limitò a guardare alcuni fogli che teneva in mano.
Le sue parole non mi rassicurano affatto, tanto da farmi dubitare della sua sincerità. Temevo ci dicesse il falso solo per farci sentire meglio, anche se né il suo lavoro né il suo carattere le permettevano di mentire.

Justin era spaventato. Conosceva la situazione solo attraverso i libri e attraverso le esperienze degli altri, ma quando capitò a sua figlia capì che il fenomeno era più complesso di quanto pensava. La leucemia di Charlotte aveva prosciugato non solo a lei le forze, ma anche a me e a Justin.
Durante quel periodo Justin capì per la prima volta nella vita cosa volesse dire rischiare di perdere tutto, o quasi.
Il ragazzo cercava di mantenere la calma facendo finta che la situazione non lo turbasse più di tanto, ma in realtà era terrorizzato dal mostro che stava portando via Charlotte e dal fatto che tutto ciò ci stesse rovinando la vita.

Per quanto riguarda me, mi limitavo a pensare a quanto tutto ciò fosse in grado di distruggermi. Era una cosa talmente forte da farmi mancare il respiro e a volte mi faceva perdere la ragione: il solo pensiero di poter vivere senza Charlotte mi faceva andare fuori di testa.
La mia bambina stava combattendo da sola qualcosa di troppo grande per le sue capacità ed io non ero altro che una semplice spettatrice. Avrei fatto qualsiasi cosa pur di vederla stare finalmente bene, ma le mie parole non contavano e quello che potevo realmente fare era inutile.

Justin ed io passavamo la maggior parte delle nostre giornate in ospedale con Charlotte, non volevamo lasciarla sola. Quando però mi capitava di tornare a casa anche solo per dieci minuti provavo una forte nostalgia che difficilmente diminuiva con il passare del tempo.

Quel periodo fu terribile anche perché ogni cosa mi ricordava mia madre. Da quando mi ero lasciata alle spalle tutto non era mai successo. Il fatto di andare avanti e indietro in ospedale, il fatto di dormire poco la notte, di avere paura di perdere terribilmente qualcuno e di sentirsi al limite del sopportabile mi ricordavano lei e la sua malattia che l'aveva portata via da me, o meglio la malattia che le aveva permesso di andarsene.

Temevo i riflessi del passato e avevo paura del peso che essi avrebbero avuto su di me. Avevo una forte paura di non riuscire ad essere più forte degli ostacoli che dovevo affrontare e nella mia condizione non potevo permettermi nessun genere di fallimento: avevo troppo da perdere, ma era ciò che temevo di non poter più recuperare una volta perduto che mi spingeva ad andare avanti. In quel periodo possedevo tutto e niente allo stesso tempo, ero me stessa e le mie paure contemporaneamente, ero quello che mi ero promessa di non essere più.

La strada verso la felicità è lunga e faticosa, sempre che essa esista sul serio e non sia solo un'immagine riflessa da uno specchio in frantumi.

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