14. L'assenza della felicità

163 20 0
                                    

14. L'assenza della felicità

Justin rimase immobile e con i muscoli tesi per tutta la nostra conversazione. Guardava in basso per tutto il tempo, come se stesse cercando una risposta chissà dove.

Di tanto in tanto, mentre gli parlavo, lui mi guardava, ma distoglieva immediatamente lo sguardo e non riuscivo a capire perché mai lo facesse.

Si era appena fatto il bagno e aveva i capelli ancora bagnati che gli ricadevano sul volto quando li toccava, probabilmente per la frustrazione.
Indossava solo un paio di pantaloncini grigi e quindi mi era facile notare quanto fosse teso.

Appena conclusi di raccondargli la conversazione avvenuta al telefono poco prima, lui rimase in silenzio. Aspettai con pazienza che si decidesse a parlare: quella era una mia scelta, ma avevo un bisogno disperato del suo parere.

"Non dovresti andare da lui" concluse continuando ad evitare il mio sguardo.

Rimasi molto colpita dalle sue parole; fino a poco prima ero convinta di avere la conferma da parte sua di andare da mio padre e di aiutarlo, ma evidentemente mi sbagliavo.

Justin era solito a perdonare le persone, non riusciva ad essere arrabbiato troppo tempo con qualcuno, alla fine cedeva sempre e ristabiliva l'equilibrio con un sorriso.

Io ero il suo contrario, eppure in quel momento i nostri ruoli erano invertiti.

"Ma Justin" protestai "lui è mio padre".

"Essere tuo padre non giustifica ciò che ti ha fatto" disse, alzando il tono della voce. "Per poco ti rovinava la vita, come fai ancora volergli un briciolo di bene?"

Abbassai lo sguardo; aveva ragione, ma se solo avesse saputo cosa davvero provavo ero certa che avrebbe cambiato idea.
"Ma lui ha bisogno di me" protestai incerta.

Justin mi obbligò a guardarlo.
"E lui dov'era quando tu avevi bisogno del suo aiuto?" urlò fuori di sé. "Devo ricordarti tutto quello che ti ha fatto?"

Negai ripetute volte, ma lui ignorò il mio gesto nonostante lo avesse visto.
"Non ha fatto niente per aiutarti quando ti stavi distruggendo davanti ai suoi occhi, ha sempre messo la sua felicità prima di tutto il resto e ti ha costretto ad andare via. Devo anche ricordarti la sua reazione appena scoprì della tua gravidanza?"

Sospirai.
Justin aveva sempre nutrito un profondo rancore nei confronti di mio padre, ma non avrei mai immaginato che potesse essere di tale importanza.

"Lui mi vuole bene, Justin. Io ne sono sicura" bisbigliai.

Si alzò in piedi e chiuse la porta, in modo di essere sicuro che Charlotte non sentisse niente.
"Questo lo chiami voler bene alla propria figlia?"

Non sapevo più cosa rispondergli, così rimasi zitta. Non sapevo nemmeno cosa pensare ormai.

"È la persona che merita meno aiuto al mondo" continuò, aumentando il suo odio nei suoi confronti.

"È la persona più meschina e viscida che io abbia mai conosciuto e in più ha il coraggio di comportarsi così?" domandò. "Meriterebbe solo di marcire in quell'ospedale. Da solo".

Mi alzai in piedi di scatto, ormai non avevo più vergogna di mostrargli le mie lacrime.
"Smettila di dire così!" gli urlai. "Non hai alcun diritto di trattarlo in questo modo. Potrà essere la persona peggiore del mondo, potrà avermi quasi distrutto la vita, potrà non volermi bene e potrà anche avermi abbandonata, ma lui è pur sempre mio papà e ha bisogno d'aiuto. Non lo lascerò da solo, perché sì, io gli voglio bene. E non smetterò mai di farlo".

Justin rimase in silenzio, mentre continuavo a piangere. Ormai non ce la facevo più, sembrava come se l'universo avesse deciso di giocarmi un brutto scherzo, come se volesse vedere per quanto potevo ancora resistere, ma continuando di questo passo ero certa che la guerra l'avrebbe vinta lui. Io avrei perso, come tante altre volte; in più temevo di restare da sola nella mia sconfitta, perché si sa, nessuno vuole stare accanto ad un perdente.

"Ai tuoi occhi potrò anche sembrarti stupida, ma non lo lascerò da solo" conclusi.

Nella stanza regnava un silenzio carico di interrogativi che nessuno dei due aveva coraggio di porre.

Ormai le lacrime percorrevano il mio volto senza che me ne accorgessi; non si fermavano e sembravano non avere una fine.

Justin ritornò a sedersi ed io me ne andrai in bagno. Appena mi guardai allo specchio fui spaventata nel vedere esattamente quella che avevo lasciato anni prima indietro. Era come essere tornati ad essere tristi, perché lo ero. Percepivo come un vuoto dentro di me: era l'assenza della felicità e la pienezza dell'angoscia. Un'angoscia che ti divora l'anima e ti logora fino all'ultimo istante, un'angoscia alimentata dall'insicurezza, dalla paura e dell'incertezza del domani.

Le persone non dovrebbero temere il domani, eppure lo fanno. Un giorno pensano di controllare la propria vita, il giorno dopo non sanno più nemmeno chi sono. Ma chi sa cosa siamo realmente? Foglie secche attaccate per miracolo al tronco di un albero sbattuto dal vento, macchie d'inchiostro su una tela, granelli di sabbia su una spiaggia ormai inquinata, l'ultimo respiro di chi sta per morire. Siamo qualcosa di incredibilmente fragile, un enorme lampadario di cristallo destinato a cadere e a rompersi in mille pezzi, forse siamo solo una grande bugia che alcune volte lascia trasparire un pizzico di verità.
Fragili come il vetro, forti come qualcosa che sta per essere abbattuto ed è a conoscenza di cosa gli accadrà, eppure, finché avrà vita, continuerà ad illudersi pensando al contrario.

Tunnel; jdbDove le storie prendono vita. Scoprilo ora