16. Non chiudere gli occhi

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16. Non chiudere gli occhi

"Noi due dobbiamo parlare" dissi a Justin appena entrò nella stanza.

Mi guardò attentamente e poi spostò gli occhi sulla piccola Charlotte che si era addormentata accanto a me nel letto, per poi addolcirsi.

La bambina adorava stare ad ascoltare la nota favola di Biancaneve, nonostante le fosse stata racconata decine e decine di volte: ad ogni parola Charlotte spalancava gli occhi, come se non l'avesse mai udita prima. Durante il finale della storia batteva sempre le mani, esterrefatta dalla conclusione della favola come se non la sapesse già.

Quella sera si era addormentata nel bel mezzo dell'incontro di Biancaneve con i sette nani; il suo respiro era calmo e rassicurante, le sue guance erano tinte di un leggero colore rosato e i suoi capelli rossi erano perfettamente scompigliati.

Delineai con il pollice i suoi delicati lineamenti del viso e sorrisi.

Justin nel frattempo aprì un cassetto e indossò una canottiera blu, sbadigliando.

"E di cosa dovremmo parlare, Genesis?" mi domandò con un movimento rapido del capo.

Lo guardai dritto negli occhi e sbuffai.
"Lo sai benissimo di cosa dobbiamo parlare" lo contraddissi.

Spostai delicatamente Charlotte lontano da me, stando attenta a non svegliarla e mi avvicinai a Justin.

"I problemi si affrontano" dissi "non ha alcun senso evitarli"

Il ragazzo sospirò, riflettendo su ciò che gli era appena stato detto.
"Me lo hai insegnato tu" proseguii accennando un sorriso provocatorio.

Justin aprì la bocca, cercando di dire qualcosa, ma rimase in silenzio.
Appariva agitato e distratto, come se stesse aspettando l'arrivo di qualcosa di ignoto.

I suoi occhi vagavano qua e là per la stanza, osservando distrattamente tutto ciò che si ritrovavano davanti, compresa me.

"Dimmi qualcosa" lo incitai, stanca di aspettare.
Prima di posare lo sguardo sulla mia figura, Justin guardò Charlotte. In quel momento desiderai ardentemente avere il potere di leggergli la mente: spesso gli chiedevo quali erano i suoi pensieri riguardo la leucemia della piccola, ma sapevo con certezza che non mi diceva mai la verità, almeno non tutta.

Comprendevo la sua paura e la sua preoccupazione, ma in Justin c'era anche un altro sentimento che non mi aveva mai svelato: la costante paura di fallire. Justin aveva paura di mostare le sue vere emozioni, fatte in gran parte da terrore e angoscia, eppure non poteva dimostrarlo per non fallire come padre, come uomo.

"Non ho niente da dirti" rispose con un filo di amarezza per poi lasciare la camera di Charlotte.

Lo guardai andarsene in silenzio, pietrificata e ferita dalle sue parole e dai suoi sguardi, ancora una volta.

Non capivo proprio perché facesse così. Forse era solo stanco, forse era triste o forse era affranto da tutta questa situazione, in ogni caso ritenevo giusto avere una spiegazione da parte sua.

Lo cercai per la casa e infine lo trovai in camera nostra, con lo sguardo perso che ogni volta mi faceva star male. Quello era il classico sguardo che mi faceva capire che non potevo fare niente per aiutarlo e che ogni mio sforzo si sarebbe rivelato inutile.

"Justin" lo chiamai, attirando la sua attenzione. Si girò verso di me, aspettando una mia parola.

Mi avvicinai a lui e gli presi la mano.
"Si può sapere che ti prende?" gli chiesi. Avevo bisogno di una risposta.

Tunnel; jdbDove le storie prendono vita. Scoprilo ora