39. Imparare ad esistere

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39. Imparare ad esistere

Le persone feriscono e, molte volte, sono proprio coloro che amiamo di più a farlo. Inspiegabilmente, sono loro quelli più protesi a farci del male. Forse ciò accade perché l'amore prima o poi muta in odio, forse accade semplicemente perché il tempo consuma i sentimenti.

Secondo molti non possono esistere solo l'amore o solo l'odio: esiste una via di mezzo, un modo che permette ad entrambi i sentimenti di coesistere, mantenendo però la loro essenza. È proprio da questo miscuglio che nascono le più vere emozioni e quello che ci rende ciò che siamo.
Solo amore, solo odio, anche se alla fine non fa la differenza: dall'amore nasce l'odio, dall'odio nasce l'amore, ma ciò che resta vivo ha conservato una parte di entrambi.

Forse le persone a cui noi daremmo tutto ci feriscono proprio per questo motivo. Forse, lentamente, tutto cambia, anche i sentimenti che noi siamo fermamente convinti di provare.

Dopo aver vissuto i fatti che vi racconto, però, sono giunta ad una conclusione. Non mi aspetto che sia condivisa da tutti, proprio perché ognuno trae le sue conclusioni in base a ciò che ha affrontato.
Credo soltanto che la ragione che spinge qualcuno che amiamo a ferirci sia puro egoismo, ma non quando quella persona ritorna da noi pentita del suo gesto. Solo quando quel qualcuno bussarà alla tua porta con il suo cuore in mano, allora avrai la certezza che il suo non era né odio né amore: il suo era un sentimento che va addirittura oltre agli altri, il suo era un sentimento che resterà vivo nel tempo.

Quando mio padre si presentò a casa mia, dopo tutti gli anni di conflitto, dopo aver fatto i conti con una vera e propria dipendenza e dopo aver vissuto senza nessuno, per chiedermi scusa e per riscrivere un nuovo capitolo insieme, compresi che il suo era un sentimento vero che nessuna distanza, nessuna bottiglia di alcol, nessuna litigata e nessun cuore infranto potrà mai cancellare.

Nel frattempo, la porta di casa si stava aprendo lentamente. Non mi ricordo di preciso quanto tempo avessi impiegato per realizzare che mio padre era veramente davanti a me, ma impiegai decisamente il doppio del tempo per realizzare che la piccola Charlotte stava uscendo di casa. Era scalza ed indossava una maglietta rosa con dei fiorellini bianchi qua e là, però i suoi occhi erano vivaci. La sua salute, anche se lentamente, stava migliorando: gli effetti positivi della chemioterapia stavano finalmente venendo a galla. Fino ad un mese prima, a quell'ora del giorno Charlotte era già distrutta: si stancava con molta facilità e trascorreva una parte importante della giornata a letto, non potendo fare altrimenti. In quel momento, invece, la piccola era attiva, vivace e per niente affaticata.

Non fui io la prima ad accorgermi della presenza di Charlotte, fu mio padre a notarla. Vidi i suoi occhi illuminarsi tutto d'un tratto, anche se durò per poco. Il suo sguardo, poco dopo, divenne subito indecifrabile.

Mi voltai verso l'entrata di casa nostra; la bambina era lì immobile: probabilmente stava aspettando che rientrassi. Lei non rivolse nemmeno uno sguardo all'uomo che era suo nonno, nonostante lei non lo sapesse ancora. Charlotte guardava me con insistenza, senza domandarsi chi fosse la persona alla mia destra.

"Torna dentro, piccola" le dissi con un sorriso, cercando di mascherare il mio nervosismo. Era una situazione davvero frustrante. "Arrivo tra poco"

La bambina non disse nulla; si limitò a fare come le avevo chiesto. Dopo essere tornata dentro casa, fu inevitabile lo sguardo confuso di mio padre, animato da mille dubbi.

"Forse hai dimenticato di dirmi qualcosa quando mi parlasti per la prima volta di Charlotte" sussurrò con un filo di voce.

"Lei non è la sua malattia" lo corressi subito. Fin troppe volte le persone avevano etichettato Charlotte con il nome della malattia che la affliggeva e quasi sempre gli altri avevano dimenticato che lei non era soltanto quello che potevano vedere.
"Quando parlai per la prima volta con te di lei, ti raccontai chi è veramente Charlotte e non contro cosa deve combattere ogni giorno. Io ti ho parlato di Charlotte come persona, non come una malata"

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