27. Dammi una risposta

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27. Dammi una risposta

Sin dalla più tenera età, non mi era mai piaciuto il mondo in cui mi trovo. Per una ragione o per un'altra, avevo da sempre avuto un magone in gola difficile da mandar giù quando pensavo al mondo in cui trascorrevo ogni giorno e in cui avrebbe per forza dovuto trascorrere la sua vita Charlotte.

Ogni volta che mi soffermavo su qualcosa che faceva parte ormai del luogo in cui vivevo, non riuscivo ad evitare di pormi delle domande, alle quali nessuno era in grado di darmi delle risposte. Dalle mie domande rimaste tali nascevano sempre interrogativi ancora più grandi, come in un circolo vizioso, finché i miei dubbi si trasformavano in ribrezzo nei confronti di ciò che nessuno mi aveva mai spiegato.

Accadde per la prima volta all'età di sette anni e da allora non riuscii mai ad uscire da quel vicolo cieco che era la sete di conoscenza e il bisogno di avere delle certezze riguardo qualcosa che mai era duraturo.
Un pomeriggio, dopo essere ritornata a casa da scuola, mia madre mi obbligò a fare i compiti ed io le chiesi a cosa mai mi servisse esercitarmi in matematica, lei si limitò semplicemente a dire che era un mio dovere e che dovevo per forza farlo. Mia madre però non si chiese se una bambina di sette anni ha veramente appreso il significato di dovere per forza fare una cosa.

A nove anni, camminando per strada la sera, chiesi a mio padre perché ci fossero così tante persone costrette a dormire fuori la loro casa, rinunciando così ad un morbido letto per stare su un freddo e scomodo marciapiede. Lui non rispose.

A dieci anni chiesi a mio padre perché mia madre fosse costretta a prendere medicine di ogni tipo, dai liquidi alle pastiglie. Neanche questa volta ottenni una risposta.

A dodici anni chiesi ancora una volta, un'ultima volta, a mio padre perché mia madre non dormisse più a casa nostra ma in un ospedale. Quella volta lui pianse e basta.

A quindici anni, durante una calda e afosa notte d'estate, guardando il cielo, chiesi a mia madre perché mi avesse lasciata sola, ma le stelle rimasero al loro posto, senza scomporsi e nessuno parlò.

A diciannove anni mi domandai perché non mettessi più piede fuori di casa, perché avessi paura di ogni cosa e perché fossi così infelice. Prima di quell'episodio, detestai chiunque non mi diede una risposta, ma quella volta ero stata io ad interrogare me stessa. Impiegai più di un anno e mezzo per rispondermi e quando compresi il significato di tale risposta rabbrividii. Avevo risposto anche alle mie precedenti domande, ma non a quelle future: il mondo aveva fallito, ed io con lui.

Esattamente come nella sera in cui mi interrogai per la prima volta dandomi una risposta, anche quella notte era molto calda tanto che quasi non si riusciva a respirare, o forse era solo una mia impressione.
Un forte temporale si era abbattuto su Fort Myers: i telegiornali locali ne avrebbero parlato per giorni interi perché, oltre ad essere stato molto violento, era anche uno dei pochi fatti degni di nota siccome in quella zona di rado accadeva qualcosa di significativo.

Il rumore della pioggia scrosciante che si abbatteva contro le finestre rimbombava in tutta la casa, sembrando ancora più forte di quello che era realmente. Il vento soffiava forte ed immaginai i rami degli alberi piegarsi alla sua potenza; il luccichio abbagliante dei lampi oltrepassava il tessuto delle tente, riempiendo di luce per qualche istante la stanza. Il rumore sordo dei tuoni invece era perfettamente udibile.

Charlotte aveva paura dei temporali e temevo che tutta questa confusione l'avrebbe svegliata: sentendo tutto quel baccano sarebbe scoppiata in lacrime e avrebbe smesso solo quando la tempesta sarebbe finita del tutto.

Il brutto tempo mi fece quasi dimenticare che ero tornata a casa, nella mia casa.

Eravamo arrivati a casa poco prima che scoppiasse il violento temporale, ma appena varcai la soglia della porta mi sembrò di non essermene mai andata. Le sofferenze, quando entrai lì dentro, provocate da mio padre sembrano non esistere: ecco perché necessitavo di tornare in quel luogo. Quella era una casa vera.
Però, l'effetto dei medicinali non dura in eterno, esattamente come l'effetto che stare a casa aveva su di me.

Un altro tuono mi fece sobbalzare, portai una mano sulla fronte e solo allora mi resi conto di star sudando. Se non sarebbe stato per il temporale me sarei andata in giardino per un po', come facevo quando non riuscivo a dormire, ma purtroppo quella notte il tempo non me lo lasciò fare.

Mi alzai dal letto ugualmente, sentivo il bisogno di fare qualcosa, qualsiasi cosa. Senza far rumore, entrai in cucina: gustai un buon thè caldo in compagnia della pioggia scrosciante, del brontolio dei tuoni e del bagliore dei lampi, che per qualche istante illuminavano ogni cosa.

Quando me ne tornai a letto, dopo essere andata in camera di Charlotte per assicurarmi che fosse tutto sotto controllo e dopo averle lasciato un veloce bacio sulla fronte, mi accorsi che Justin non dormiva più.

"Ti ho svegliato io?" chiesi sussurrando, rimettendomi sotto le coperte.

"No" rispose sbadigliando, "penso sia per colpa del temporale"

Mi avvicinai di più a Justin e lui mi circondò con le sue braccia: non riuscii ad evitare di sorridere. Quella era la sensazione che desideravo intensamente provare durante le lunghe notti trascorse in albergo.

"Tu invece?" domandò, "perché sei sveglia?"

"Probabilmente per la tua stessa ragione"

"Secondo me non è così" mi corresse.
La sua frase mi fece aprire gli occhi: anche se non ci fosse stato il temporale non avrei dormito comunque. Justin ormai mi conosceva meglio rispetto a quanto mi conoscevo io.

"A cosa stavi pensando?"
Iniziò a lasciarmi delle morbide carezze.

"Pensavo a tutto quello che è successo" risposi, "pensavo a quanto mio padre sia un codardo e a quanto la vita sia ingiusta"

Inizialmente Justin non rispose, bensì si limitò a sospirare e a guardare dritto davanti a sé. Poi parlò.
"Tutte queste non sono novità, Gen. Avresti dovuto saperlo già"

Effettivamente era vero, ma la mia voglia di rendere mio padre diverso da quello che era e riportare la vita sulla via della giustizia era fin troppo forte.
"Speravo di poterlo rendere migliore, speravo di poterlo aiutare in qualche modo" continuai. Gli occhi iniziavano a pizzicare.

"Cambierà quando lo vorrà davvero, tu non puoi farci niente. Hai fatto fin troppo"

Ci fu un altro tonfo assordante nel cielo, ma la pioggia sembrava essere diminuita rispetto a poco prima, o almeno dal mio punto di vista.

"Perché è tutto così?" domandai a Justin. "Perché è tutto così ingiusto? Mi sembra tutto solo una bugia talmente grande che è impossibile nasconderla con la verità"

La pioggia continuava a cadere dal cielo senza mai fermarsi: in passato quel rumore mi rilassava, ma in quel momento volevo solo che smettesse. Sentivo solo le gocce d'acqua infrangersi sulla finestra, nient'altro. Quel rumore sembrava avermi penetrato il cervello, sentivo soltanto quello.

"Perché, Justin?"

Non rispose, disse che non lo sapeva. Non riuscì a darmi una risposta, come tutte le persone a cui ponevo sempre le mie domande. Mi sentii terribilmente inquieta e fragile. Justin era sempre stato in grado di rispondermi, eppure quella volta no.

Il mio umore migliorò quando sentii dei leggeri passi nel corridoio farsi sempre più vicini alla nostra camera da letto.

Charlotte sbucò da dietro la porta con il suo solito pigiama rosa e con gli occhi stanchi. Sbadigliando si avvicinò; doveva essere stata svegliata dal temporale.

Trascorsi il resto della notte con Charlotte al mio fianco, che dormiva profondamente con accanto Justin. Mi addormentai solo quando smisi di pensare alle risposte mai ottenute ed iniziai a pensare a dov'ero e a cosa avevo.

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