26. La leggerezza delle nuvole

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26. La leggerezza delle nuvole

Persi il volo delle undici e quarantacinque, poiché arrivai troppo tardi in aereoporto e ormai il mio aereo era già partito per la Florida. Dopo aver comprato un altro biglietto, attesi pazientemente nella grande sala che arrivasse l'ora dell'imbarco: non mi importava di aver speso altri soldi per un altro volo, non mi importava di non aver pranzato, non mi importava della dolorosa sensazione che provavo, non mi importava di piangere davanti a decine e decine di sconosciuti e non mi importava nemmeno di perdere il controllo e quindi lasciarmi sopraffare dal panico. Non mi importa più di niente, volevo solo tornare a casa.

Quando, alle tre e ventinove del pomeriggio, mi sistemai sul grande aereo che mi avrebbe riportata finalmente a Fort Myers, mi addormentai non appena varcammo in linea d'aria il territorio statunitense, sperando di viaggiare in un posto migliore, almeno nei miei sogni, anche se nemmeno lì riuscii a stare in pace con me stessa.
Ogni volta che sentivo le palpebre pesanti, ogni volta che chiudevo gli occhi e rimanevo tra le braccia di Morfeo per più di due minuti, mi risvegliavo di soprassalto e terrorizzata a causa degli incubi che mi perseguitavano.

Avevo paura, una tremenda paura che rigudava tutto quello che non conoscevo, tutto quello su cui non avevo il controllo. Avevo paura di sbagliare di nuovo, avevo paura di perdere quello che avevo, avevo paura di non riuscire a cambiare una volta per tutte, di essere debole. Tutto quello che avevo creato mi faceva paura, avevo paura addirittura della mia stessa paura. Temevo di essere abbandonata di nuovo, come se già non fossi sola. Avevo paura di quello che potevo pensare: mi facevo paura.

Come se già non fosse abbastanza, sentii un forte impulso di vomitare, ma non potevo muovermi dal sedile e inoltre mi sembrava alquanto fuori luogo, anche se per un momento fu talmente forte che temetti di non riuscire a controllarlo. Avevo bisogno di svuotarmi completamente lo stomaco e se quello era il prezzo da pagare per sentirsi più leggeri, ero disposta a fare questo sacrificio.

Fuori dal piccolo finestrino ovale si apriva un mondo immenso, tanto meraviglioso quanto crudele. Il sole era caldo e penetrava il vetro, arrivando fino al mio viso; le nuvole erano bianche e assomigliavano allo zucchero filato che Justin comprava sempre a Charlotte quando andavamo al luna park tutti insieme; erano così soffici e volentieri mi sarei distesa sopra di esse, forse mi avrebbero fatto sentire un po' meglio, o forse peggio. Invidiavo la loro leggerezza e la loro purezza.

Dietro quel piccolo finestrino c'era un mondo, ma non il mio. Quel mondo mi aveva ferita troppo per essere così bello.

Su quell'aereo mi domandai dove fossi diretta.
Mi chiamo Genesis e quando questo accadde avevo più di ventisei anni, erano quasi le cinque di un lunedì pomeriggio alla fine di novembre, mi trovavo su un grande aereo diretto per la Florida e stavo guardando fuori dal finestrino, ma nonostante tutto io non sapevo dov'ero diretta, non sapevo cosa stavo facendo e non sapevo chi ero. Non sapevo nemmeno chi volevo essere.

***

L'aereo atterò nell'aereoporto statunitense più tardi del previsto a causa di alcune complicazioni durante il volo, o almeno così annunciò solennemente l'hostess quando, dopo il turbolento atterraggio, il mezzo si fermò. Le porte si aprirono e in un paio di secondi si materializzarono accanto ad esse delle donne, il cui compito era di assicurare l'ordine all'interno dell'aereo. La maggior parte dei passeggeri scattò in piedi per prendere i loro bagagli, io invece attesi pazientemente che la massa di persone si calmasse ed uscisse, in modo da poter prendere senza troppe preoccupazioni le mie cose.

Fui l'ultima dei passeggeri ad abbandonare l'aereo; una delle hostess prima di uscire mi ringraziò gentilmente per aver scelto il loro volo, ma non le diedi troppa importanza. La mia mente in quel momento era focalizzata solo sulle due persone che da lì a poco avrei rivisto.

L'aria era indubbiamente più calda, anche se era satura di umidità e un vento caldo soffiava forte: sentivo che ci sarebbe stata una tempesta prima che sorgesse di nuovo il sole.

Trascinando con fatica il mio bagaglio, attraversai l'intero aereoporto cercando di mantenere la calma e, dopo essere uscita, mi indirizzai nel parcheggio in ricerca dell'auto in cui mi aspettavano Justin e Charlotte.

Ero talmente stanca, non vedevo l'ora di farmi una doccia: speravo che l'acqua fredda portasse via da me ogni ricordo del viaggio in Canada e di ciò che era successo.
Volevo solo tornare a casa mia e farmi una bella dormita tra le braccia dell'unica persona al mondo che era in grado di calmarmi e farmi sentire al sicuro, l'unica persona che non voleva ferirmi.

Nel lato sud del grande parcheggio intravidi la macchina. Non impiegai poco tempo per trovarla: quel posto era davvero gigantesco e nel buio le macchine sembravano tutte uguali.
Finalmente, dopo più di una settimana - anche se questi giorni ebbero lo stesso peso di anni interi - tornai a casa.

Justin appena mi vide sorrise con estrema dolcezza e non riuscii ad evitare di fare lo stesso. Quando le nostre labbra si ritrovarono non sentii più nessun peso: non sentii la logorante malattia di Charlotte che la consumava ormai fin dentro le ossa, non sentii il dolore al petto che provavo per l'abbandono di mio padre, non percepii la stanchezza causata dal difficile viaggio in aereo, non sentii più niente. Tutte le sofferenze avevano lasciato spazio alla leggerezza di cui tanto avevo bisogno, la leggerezza che fino a poche ore prima invidiavo alle nuvole bianche su cui volavamo. Quello era ciò che credo sentirsi leggeri: essere privi dei nostri macigni.

"Mi sei mancata" disse dopo, ma con quelle parole distrusse l'armonia che si era creata nell'abitacolo di quella macchina. Erano parole e allo stesso tempo erano domande; ormai aveva capito che c'era qualcosa che non andava, molto più di qualcosa.

"Dov'è?"

Dopo essere tornata in albergo dalla folle corsa all'indietro che mi portò nella mia vecchia casa, chiamare Justin per raccontargli tutto fu la prima cosa che feci, e anche la più naturale. Inizialmente il ragazzo non appoggiò la mia scelta, anzi. Solo quando l'aereo era prossimo a decollare in Florida compresi che Justin, in qualche modo, mi mise a conoscenza di quello che sarebbe successo. Secondo lui, la mia era una pessima idea: non riteneva mio padre una persona affidabile con la quale costruire qualcosa di serio, e aveva ragione.
Nonostante la sue perplessità, dopo più di un'ora al telefono, convinsi Justin ad appoggiarmi.
In quel momento, però, lui non era a conoscenza di com'era andata a finire la mia terribile favola.

La leggerezza che provavo scomparve all'improvviso, facendomi male al petto. Mi sforzai di non piangere e, per fortuna, ci riuscii, anche se avevo un nodo alla gola. Non parlai e Justin rispettò il mio doloroso silenzio, probabilmente aveva capito il finale della favola - anche se precipitata di più nel mondo degli incubi - e la morale.

Nel frattempo, nel sedile posteriore, sul suo seggiolino a righe bianche e blu, dormiva beatamente la parte migliore di me, l'esatta metà del mio cuore.

Rimasi a guardarla mentre Justin mise in moto la macchina; Charlotte dormiva così beatamente e profondamente che fu in grado tranquillizzarmi in un secondo, riuscii a tormare indietro nel tempo, quando ogni cosa era al suo posto. Fui travolta da una sensazione di beatitudine che non sarebbe duranta a lungo: vivevo nel mondo reale, il quale poteva fermirmi in qualsiasi momento, ma per qualche secondo venni catapultata da qualche altra parte dove mio padre era accanto a me e dove Charlotte aveva ancora i suoi capelli rossi e non una fascia azzurra in testa.

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