30. Nessuno si salva quando Dio non c'è

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30. Nessuno si salva quando Dio non c'è

Il tempo su quella scomoda sedia sembrava non passare più. Avevo la sensazione di essere in quel corridoio da ore intere, anche se in realtà Charlotte si trovava con la dottoressa Ellen da poco più di mezz'ora.

Avevo perso la cognizione del tempo: un minuto sembrava durare tanto quanto un'ora, tutto sembrava durare troppo a lungo.
Ormai la sensazione di felicità che mi avvolgeva fino a quella stessa mattina era solo un lontano e dolce ricordo, nulla di più. In quel momento non riuscivo a provare nessun genere di emozione, era tutto troppo surreale. Mia figlia di nemmeno quattro anni non poteva essere veramente dentro quella stanza d'ospedale con chissà quanti medici che lavoravano senza sosta affinché rimanesse in vita, eppure era così. Charlotte stava veramente morendo.

Qualcosa la stava trascinando via da me, lentamente. Secondo dopo secondo, lei se ne andava. Piccola e fragile com'era, soprattutto in quel periodo, Charlotte non poteva sovrastare la forza che la trascinava lontano, anche se nessuno era in grado di farlo. Io non l'avrei salvata, la chemioterapia non l'avrebbe salvata, i medici non l'avrebbero salvata. Nemmeno la sua tenera età non sarebbe stata la ragione per cui ciò che si stava impadronendo di lei l'avrebbe fatta vivere, come d'altronde l'amore che io e Justin provavamo per lei. Niente l'avrebbe risparmiata.

Sentivo un vuoto nel petto, un abisso immenso nell'immenso oceano e cos'erano le mie lacrime a confronto?
Ogni sacrificio, ogni battaglia e ogni vittoria in quel momento sembravano vani, o forse lo erano sul serio. Tutto era niente, ogni cosa aveva perso il suo valore e mentirei se dicessi che la mia vita non faceva parte di quella lunga lista.

Il tunnel sembrava davvero essere senza fine, come i sentimenti negativi su questa Terra. Non soffro di claustrofobia, ma in quel momento dentro di esso mi sentivo soffocare. Desideravo ardentemente tornare all'esterno, respirare l'aria fresca ed essere riscaldata dalla luce del sole, ma ciò di cui avevo bisogno non aveva alcuna importanza in quel tunnel.
Dove conduceva? Dove sarei capitata alla fine del tunnel? Quanto sarebbe durata la mia permanenza lì dentro?

"Secondo te dovrei entrare nella stanza?" domandò Justin. Lui era in piedi accanto a me. "Però so che non reggerei. Sì, non riuscirei a stare lì nemmeno per un minuto"

La sua voce arrivava appena alle mie orecchie. Era debole, flebile e rotta dal pianto.

"Cosa devo fare, Genesis?" mi chiese ancora; si sentiva inutile tanto quanto me. Forse avrei dovuto consolarlo, dirgli che non era il solo a provare quella sensazione, ma non dissi nulla di tutto ciò. Non avevo la forza nemmeno per calmare me stessa.

"Fai quello che ti senti di fare" dissi, senza guardarlo in faccia. Justin sospirò pesantemente più volte, come per liberarsi di qualcosa. Poi, addolorato e pieno di sconforto, tornò a sedersi sulla sedia accanto la mia.

Potevo sentirlo, ne ero certa: ciò che provava era esattamente ciò che provavo io.

Portò un braccio attorno alle mie spalle, io continuai a guardare davanti a me la porta di un bianco più scuro rispetto quello delle pareti, dove si trovava Charlotte. Chissà come stava, chissà quali erano la sue condizioni, chissà cosa pensava.

Per la prima volta da quando avevamo iniziato ad attendere impazienti qualche notizia sulla nostra bambina, guardai Justin. Era molto pensieroso e teso e dal contesto, per chi non lo conosceva bene, poteva sembrare che si fosse semplicemente alzato con il piede sbagliato, quella mattina. Ma non era così. Entrambi ci eravamo svegliati con il sorriso perché quella doveva essere una giornata di festa, ma infine si era rivelata tutto tranne che un giorno carico di gioia e non era nemmeno mezzogiorno. Chissà quante altre cose sarebbero successe prima che scendesse il sole.

"Lo sai" disse Justin di getto, "questa è la sensazione più brutta che io abbia mai provato. Mi sento inutile, anche se in verità lo sono. Mia figlia sta morendo sotto qualche macchinario e guarda cosa sto facendo per impedire che lei se ne vada"

Si passò una mano sul volto stanco e pallido, poi serrò la mascella e continuò a guardare nel vuoto.

"Mi odio, Genesis" sussurrò, poi una lacrima rigò il suo viso. "Preferirei essere io in quella stanza"

Non sei il solo a desiderarlo, amore mio. Lo guardai negli occhi e Justin capì al volo cosa volessi dire. Capisco cosa provi nel desiderare di morire al posto di qualcun altro.

"Augurarti il male non servirà a cambiare questa situazione" risposi. "Non sei colpevole di niente, Justin. Non hai alcun genere di colpa, nessuno qui si è macchiato di sangue"

Una donna piuttosto anziana attraverò il corridoio. Si reggeva in piedi a malapena e sarebbe caduta senza il suo bastone. Secondo dopo secondo, la figura della vecchia donna diventava sempre meno chiara. Un fiume di lacrime era pronto a rompere la diga.

Strinsi la mano di Justin.
"Vorrei poterti dire che andrà tutto bene, ma a questo punto ho perso tutta la fede in Dio che avevo"

"Dio la salverà, credimi"

Abbassai lo sguardo. Ormai la diga si era distrutta completamente.
Justin si affrettò a pulire con il pollice le lacrime che mi rigavano senza sosta il volto, finché non cedetti completamente.

"Perché continuare a crederci quando Charlotte sta morendo? Dov'era Dio quando i dottori le diagnosticarono la leucemia? Dov'è adesso?"

Justin mi avvolse tra le sue braccia. Avevo un nodo in gola talmente grande che sentivo un forte impulso di vomitare.

"Ormai non credo più a niente"

***

Dopo un'ora e ventisei minuti di attesa, due medici uscirono dalla porta che continuavo a fissare da quando avevo messo piede nell'ospedale. Tra di loro c'era anche la dottoressa Ellen.
Justin fu il primo tra di noi ad accorgersi della loro presenza e quando li vide scattò in piedi. Io mi avvicinai a loro qualche istante dopo.

"Come sta Charlotte, Ellen? Cosa le è successo? Dov'è adesso?"

Ellen sorrise nel suo camice bianco, poi si tolse i guanti in lattice. L'altro medico, un uomo moro e alto, tolse il disturbo, lasciandoci nelle mani della collega.

"Una domanda per volta, Justin" rispose la donna. Nel suo tono potei notare un briciolo di sarcasmo che, in base al contesto e alla situazione in cui io e Justin ci trovavamo, era parecchio inadeguato.

Ellen posò gli occhi su di me e successivamente su Justin, poi tornò seria.
"Ha subito un cambiamento di rotta: la sua malattia non sta regredendo, anzi. Le sue condizioni sono peggiorate, ma per ora non sono critiche. Charlotte dovrà aumentare i cicli di chemioterapia e i controlli finché la situazione non si stabilizzerà, poi vedremo in che modo agire. Adesso sta bene, sta dormendo. Si è presa un bel spavento, poverina. Potete entrare"

Detto ciò, la donna ci lasciò da soli. Non aveva nient'altro da aggiungere e noi non avevamo bisogno di ascoltare neanche una parola in più.
Justin ed io non esitammo ad entare nella stanza; appena vidi Charlotte che dormiva beata tra le coperte, non sentii la necessità di vedere altro, c'era solo lei.

Le accarezzai la guancia e sorrisi di cuore. L'unica cosa che volevo era portarla via da quel letto, portarla via dall'ospedale e portarla via dalla sua stessa malattia. Lei doveva essere felice, doveva stare bene.

Senza rendermene conto, altre lacrime mi rigarono il viso. Erano lacrime di paura, tristezza, amarezza e rassegnazione, ma anche lacrime cariche di un amore infinito, talmente infinito che sarebbe sopravvissuto a qualsiasi era, guerra e malattia. Era un amore puro e vivo che nasceva dal più profondo del mio cuore, così vero da non conoscere nessun dubbio. Quel sentimento iniziai a provarlo non appena seppi della presenza di un essere, nemmeno di una persona, dentro di me e crebbe a dismisura non appena guardai Charlotte negli occhi. Questo tipo di sentimento era l'unica cosa che mi faceva sentire viva, l'unica cosa che mi faceva sentire come se non stessi sprecando la mia vita: era l'unica cosa per cui valeva la pena lottare.

Tunnel; jdbDove le storie prendono vita. Scoprilo ora