28. Restare

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28. Restare

I giorni e i mesi trascorsero con il loro rispettivo peso e lasciando il segno del loro passaggio, talvolta doloroso, talvolta piacevole.

Quell'anno il giorno di Natale fu diverso rispetto gli altri: solitamente ogni venticinque dicembre e i giorni avvenire li trascorravamo, ormai da ben tre anni, in una deliziosa casetta in Carolina del Sud in compagnia dei genitori di Justin. La famiglia Bieber aveva ereditato tale proprietà da una zia, la quale aveva lasciato la casa in cui era vissuta nelle loro mani, dopo essersene andata a causa della sua età una decina di anni prima.

La casa si trovava in campagna, un paio di chilometri di distanza da Greenville; quel periodo era senz'altro uno dei più belli dell'anno, non solo perché il posto in cui ci trovavamo era semplicemente delizioso, immerso nel verde e nella tranquillità di una zona lontana dal caos cittadino, ma perché stavamo tutti insieme, a differenza di come festeggiava il giorno di Natale la mia famiglia.

I genitori di Justin erano delle persone semplici e ormai, ai giorni nostri, questa qualità scarseggia parecchio. Sua madre era una donna bellissima per la sua età, con degli occhi azzurri e vivaci, era energica, solare e sempre gentile. Puntualmente, durante il pranzo natalizio, la donna ricordava al figlio quanto fosse fortunato ad avere me al suo fianco, facendomi sempre commuovere.
Il padre di Justin, invece, era molto diverso rispetto la moglie, era un uomo molto chiuso in sé stesso e timido, burbero e a volte un po' brontolone, ma queste caratteristiche non impedivano alla sua vera persona di emergere. Era sicuramente un uomo di buon cuore e molto disposto ad aiutare gli altri.

I genitori di Justin amavano Charlotte alla follia ed erano sempre pronti ad accontentarla in tutto e per tutto. Ogni volta che ci incontravamo avevano sempre dei regali per lei e l'accoglievano sempre con un enorme sorriso, la trattavano come una principessa, come se fosse la bambina più speciale e bella del mondo.
Alcuni pomeriggi la portavano a fare delle passeggiate in ogni posto che la piccola desiderava conoscere, lasciando così me e Justin da soli e liberi di fare l'amore. Quando nonni e nipote tornavano a casa, Charlotte era sempre entusiasta e pronta a raccontare tutto quello che aveva visto e conosciuto.

Quando eravamo lì la vita sembrava essere più facile e piacevole, tanto che quei giorni trascorrevano in un batter d'occhio.
Andavamo molte volte a Grinville ed era sempre un piacere ritornare in quel luogo, anche solo per trascorrervi alcune ore la sera.

Però, quell'anno fu tutto diverso.
Due settimane prima di Natale ricevemmo una telefonata da parte dei genitori di Justin, i quali ci diedero appuntamento il ventiquattro dicembre alla casa dove eravamo soliti trascorrere le vacanze. Ma quell'anno era tutto diverso, la nostra vita era cambiata. Non era più la nostra vita perfetta, non era più fatta di spensieratezza e felicità.

Il pomeriggio stesso io e Justin ci ritrovammo in cucina a discutere su cosa fare: potevamo ancora trascorrere il Natale come facevamo sempre?
Alla fine, dopo più di un'ora, quando Charlotte si svegliò poco prima di portarla all'ospedale, la risposta ci sembrò chiara.
Quel Natale, invece di andare a Greenville, rimanemmo a Fort Myers. Quel giorno tanto speciale e atteso lo trascorremmo a casa nostra a scartare i regali sotto l'albero e a pranzo non mangiammo come ogni anno deliziose pietanze preparate con cura dalla mamma di Justin, bensì quello che rientrava nella dieta di Charlotte. La giornata di Natale si concluse con una telefonata da parte dell'ospedale: la visita di controllo di Charlotte era stata posticipata a martedì.

La malattia di Charlotte nel frattempo non era né migliorata né peggiorata, era come se fosse rimasta sullo stesso punto per mesi, e questo mi spaventava: significava che la chemioterapia non era stata utile tranne per prosciugare completamente le forze della piccola e per toglierle i capelli.
Ogni mattina, svegliarla e vederla in quelle condizioni era un duro colpo: vederla piangere mi distruggeva completamente, mi sentivo inutile e impotente davanti a quello che la stava facendo morire. La sua malattia mi faceva sentire come una vittima del terremoto: l'unica cosa che mi era concessa fare era restare a guardare la mia casa in macerie sapendo che tutto ciò che avevo di più prezioso, alla fine di tutto, sarebbe scomparso per sempre.
Tutto quello che avevo si stava distruggendo davanti ai miei stessi occhi: dalla mia bambina, una vittima innocente, a me stessa.

L'unica certezza che mi rimaneva, l'unico punto fisso che riusciva ad andare oltre alla catastrofe che, senza alcun preavviso, si stava abbattendo sulle nostre vite era Justin. L'amore che provavo per lui era l'unica cosa che mi faceva sentire ancora viva, era la mia boccata d'aria fresca in una giornata calda e afosa, la spalla su cui potevo piangere, la mia casa, la luce alla fine del tunnel.
Io potevo contare su Justin e lui poteva contare su di me, era tutto basato sulla capacità di restare. Restare anche con la malattia, restare con la consapevolezza che un'altra sofferenza era dietro l'angolo pronta a peggiorare la situazione, restare quando tutti gli altri se ne andavano, restare nonostante tutto.

Non sempre il rapporto tra me e Justin era rose e fiori: molte volte, dopo aver portato a casa Charlotte da un'altra seduta di chemioterapia che l'aveva costretta a restare in ospedale per un paio di giorni, litigavamo su che canale trasmettesse il telegiornale migliore, chi dei due la mattina dopo avrebbe accompagnato la bambina in asilo e chi lasciava in disordine la camera da letto o il bagno. La maggior parte delle volte, però, il nostro cattivo umore mutava non appena Charlotte si metteva seduta sul divano tra di noi: quella era la mia ragione per restare, la nostra ragione che non ci faceva abbandonare tutto.

Charlotte era così, lei sapeva mettere tutto al suo posto senza nemmeno volerlo, era nata per sistemare le cose. Senza di lei, non so se io e Justin avremmo retto. Quando la notte, tra mille pensieri vaganti, un po' di speranza continuava a morire dentro di me, mi chiedevo quale fosse la ragione che mi spingeva a continuare a soffrire, come se alla fine di tutto ci fosse davvero qualcosa per cui avesse la pena restare. Ma non appena sentivo dei leggeri passi nel corridoio, delicati e furtivi, e non appena vedevo Charlotte fare capolino nella stanza per poi infilarsi sotto le coperte, capivo tutto e mi ricordavo cosa mi spingeva ad andare avanti. Mi bastava soltanto guardarla negli occhi per capire che ne valeva davvero la pena.

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