Capitolo 2 - Primi passi

6.2K 303 151
                                    

Anni e anni di guerre tra lettori amanti del fantasy per decretare quale tipologia di mostro fosse più orribile tra demoni e licantropi, quando sarebbe bastato far sentire loro il suono della sveglia a tutto volume il lunedì mattina e il dibattito lo avrebbe vinto lei, piccola figlia del Diavolo.

Mi sveglio accompagnata dalla melodia di Paradise city dei Guns 'N Roses che parte a tutto volume, accorgendomi di essermi addormentata ancora vestita.

Faccio una doccia veloce e infilo i miei jeans nuovi di zecca, abbinandoli a una felpa rigorosamente nera. Passo la matita nera sugli occhi, indosso la giacca di pelle e corro in accademia, che dista a poche fermate di metro da qui.

Entrando nell'edificio quasi mi manca il fiato. Il salone all'ingresso è immenso, pieno di tavoli bassi e rotondi, neri, abbinati a poltroncine bianche di pelle, a disposizione dei visitatori. Dietro a un piccolo bancone di marmo si intravede una donna impegnata al computer e tre macchinette contenenti cibi e bevande. Quelle, probabilmente, saranno la mia salvezza per l'intero anno.

Noto appese alle pareti alcune immagini, in cui vengono raffigurate varie composizioni still life di alcuni frutti. Un'arancia rossa, matura, tagliata a metà e ripresa da vicino, un calice da vino trasparente pieno di fragole, poggiato su un tavolo a sfondo nero e un piccolo cesto tinto di bianco da cui cadono alcune ciliegie.

«Buongiorno, mi scusi, dove posso trovare l'aula di fotografia?» chiedo alla donna.

«Buongiorno a te! In fondo a quel corridoio, la trovi sulla destra. Buona giornata!» risponde in modo cordiale, abbozzando un piccolo sorriso di routine. La ringrazio e percorro il corridoio, passando alcune aule ancora chiuse e trovando, solo per ultima, quella che stavo cercando.

Per il primo giorno hanno deciso di riunirci in quello che sarà il nostro studio fotografico da qui ai prossimi due anni. È un salone ampio e pieno di postazioni in cui lavoreremo comodamente.

Siamo tutti in fila come se ci trovassimo alle presentazioni per le prove militari, in silenzio, ad ammirare tutto ciò che ci circonda. C'è chi è attratto dalle mille macchine fotografiche a disposizione, chi dai set e poi ci sono io, che sono attratta dai cavalletti della Manfrotto. Ne sogno uno da quando ero ragazzina e mio padre mi aveva aiutata con la spesa della prima macchinetta professionale. Non gli avrei mai chiesto di comprarmelo, anche se di certo lo avrebbe fatto e lo farebbe tutt'ora, ma chiedere non ha mai fatto per me. Rimango ancora oggi nella vana speranza di riuscire un giorno ad affrontare tale spesa.

«Buongiorno a tutti, ragazzi! Sono Marco Ludicoli, il vostro professore di fotografia» annuncia l'uomo, entrando in classe. Ha un modo di fare simpatico e una voce squillante, molto curato nel suo abito grigio adatto alla sua mezza età e nessun filo di barba fuori posto.

L'eleganza, probabilmente, è un dettaglio appartenente alla città.

«Dobbiamo portare le nostre attrezzature durante l'anno?» chiede una ragazza, a bassa voce, dal fondo dell'aula.

«Siete liberi di farlo, ma potrete usare anche quelle che avete qui, per non essere scomodi durante il viaggio. Avete una vita intera per portarvi venti chili di attrezzatura sulle spalle, non vi preoccupate!» Scoppiamo in una sonora risata e lui ci lascia alle conoscenze.

Sono sempre stata classificata come asociale e non nego una punta di disagio nell'essere circondata da così tante persone in un luogo ristretto.

Nel mio paese avevo solamente due amiche contate a cui ero molto legata, Giada e Francesca. Loro erano persone da serate in discoteca, magari in compagnia di qualche sconosciuto, perciò io, alla fine, mi ritrovavo sempre il venerdì sera chiusa in casa, a leggere un libro. Stessa cosa valeva per la quotidianità, mentre passavamo in un bar a bere qualcosa un giorno sì e l'altro pure, loro salutavano chiunque passasse, mentre io rimanevo con i discorsi a metà, interrotta tra una parola e l'altra. In poche parole, la terza incomoda della compagnia.

Non credo che qui sarà diverso, ma alla fine dei conti avranno pur inventato gli angoli isolati perché qualcuno ci si accomodasse, giusto?

Mi siedo in fondo all'aula, vicino alla porta, iniziando a dare un'occhiata veloce a tutte le ore della settimana. Quando alzo gli occhi dal malloppo di fogli, noto una ragazza che mi fissa, spaesata.

«Hai bisogno?» chiedo, anche se non saprei che aiuto darle.

«Ehm, no, ma ti ho vista qui e ho pensato di fare due chiacchiere. Mi chiamo Ilaria, piacere.» Si presenta, porgendomi la mano.

«Sofia, piacere mio!» affermo, rispondendo al gesto. «Siediti pure qui, se vuoi. Non conosco nessuno, quindi mi sono messa da parte» spiego.

«Oh, credo che qui siano tutti sconosciuti. Il primo giorno del primo anno è sempre traumatico per me: mi sento spaesata.»

«Ti capisco!» dico, sincera.

Parlando con lei noto che ha gli occhi di un azzurro intenso, che le mettono in risalto i lunghi capelli corvini sciolti sulle spalle e i leggeri lineamenti del viso. È una bella ragazza, senza dubbio e, al contrario di me, parla con disinvoltura, come se mi conoscesse da anni.

Il professor Ludicoli interrompe le nostre chiacchiere, annunciando la fine delle due ore introduttive: per oggi la lezione è terminata.

Esco un po' di fretta, avendo voglia di tornare a casa e sonnecchiare un po'. Percorro il tragitto con Ilaria fino alla metro, scoprendo che abita alla fermata prima della mia.

«Allora ciao, Sofia. Se ti va, ci vediamo domani sulle stesse sedie!»

La saluto con un cenno e scende, mentre io torno ad ascoltare musica rock dalle cuffiette.

«Ah, finalmente a casa!» esclamo, consapevole del fatto che nessuno mi sente.

Mi sono ambientata nel nuovo appartamento; è un bilocale spazioso e confortevole. La cucina era già presente al mio arrivo, piccola e di un nero lucido, anche se la uso poco. Il bagno è interamente bianco, con due ampi specchi orizzontali e un mobiletto in legno, quasi in disuso per il mio scarso utilizzo di cosmetici. La stanza da notte e soggiorno è più ristretta, tenendone, il mio letto a due piazze, quasi la metà. La libreria nera è già piena di miei romanzi, alcuni souvenir su una delle mensole e, in fondo alla stanza, c'è un piccolo armadio con solo un'anta, che a me basta e avanza. Oltre all'appartamento, adoro particolarmente la indipendenza.

Il pomeriggio trascorre velocemente con impegni molto faticosi che prevedono divano, serie televisive e cibo: la mia solita sfiancante routine.

Per cena decido di ordinare cinese e mi gusto degli spaghetti di soia con verdure, mettendomi davanti al computer, sicuramente migliori della pizza surgelata.

Il mio sito di fotografia mi attende: al contrario della realtà, qui sono molto socievole. Ciò che mi fa più piacere è che, nonostante io fino a ora non abbia mai realmente studiato fotografia, risparmiando soldi per questa accademia, riesco sempre a stupire le persone che mi seguono. Adoro interagire con loro, probabilmente perché non sono tenuta a guardarli negli occhi mentre parlano.

Stacco la spina e decido di mettermi a letto, domani inizia la vera avventura. Cinque ore di lezione sognando a occhi aperti un angelico barista che mi prepara un caffè; non ci sono più abituata.

Caffè, amore e fotografia (Completa)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora