Capitolo 13 - SACRIFICIO - finale

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«Ti prego, lasciami!»

Mi trascinava, afferrandomi per i capelli con le sue mani imbrattate di sporcizia fino alla cucina, dove quell'uomo, dal volto rubicondo, mi stava attendendo. Indossava una lunga tonaca marrone, sopra la quale pendeva una grossa croce d'oro luccicante. I suoi occhi caprini si illuminarono nel vedermi, un largo sorriso si fece spazio tra le labbra violacee.

«Ecco, questa è mia figlia, nobile signore.»

Faticavo ormai a riconoscere in quell'uomo qualcosa che ricordasse mio padre. Un essere grottesco e dissoluto sembrava aver preso possesso del suo corpo, cancellando ogni briciolo di umanità. 

Dopo la prematura morte di mia madre, aveva perso il lavoro da minatore e cominciato a bere. Trascinava nel fango la sua misera esistenza giorno dopo giorno, commettendo piccoli furti e consumando tutto il suo guadagno tra alcol e gioco d'azzardo.

«Guardi che bel visino, ha appena compiuto quattordici anni che ne dice?»

Il tanfo di vino che emanava mi disgustò a tal punto da farmi venire i conati. 

L'ospite si grattò il mento, come per esprimere i suoi dubbi. 

«È un po' matura rispetto ai miei gusti, ma vista la sua bellezza, per questa volta potrei soprassedere.»

Non faticai a capire cosa significasse quella frase. L'uomo appoggiò un piccolo sacchettino sopra il tavolo della cucina.

«Padre, lei è una persona molto generosa.»

Il mio genitore mi bloccò per le braccia mentre il prete si stava spogliando.

Abusò di me ripetutamente quella notte e le sue visite si ripeterono ciclicamente ogni settimana. Oltre al corpo violentava anche la mia mente; mi diceva che ero impura, un frutto sporco del peccato, responsabile della morte di mia madre e della trasformazione negativa del mio genitore superstite. Diceva che era per volontà della Grande Madre che penetrava i miei orifizi, che quella era l'unica occasione che avevo di guadagnarmi il suo perdono. 

Quando non ero con lui, mio padre mi segregava in una piccola stanza posta in una cantina, dove la luce filtrava attraverso una grata, larga solo un paio di spanne. Per lui ero diventata uno strumento con cui guadagnarsi da vivere, una rendita che gli permetteva di pagare i suoi vizi. Pensai quasi ogni giorno all'opportunità di togliermi la vita, ma il senso di colpa che mi aveva inculcato quel sacerdote me lo impediva, finché un giorno...

Con un fragoroso boato, la porta d'ingresso dai cardini arrugginiti, cadde sotto il calcio dello stivale del soldato.

«Dove sei, bastardo?»

Mio padre aveva esagerato, pestando i piedi a troppe persone di rilievo in città e qualcuno aveva deciso che era il momento di fargliela pagare. A Tiluana vigeva un accordo tra gli abitanti e il clan della Lacrima Cremisi: criminali e soggetti al margine della società venivano sacrificati a loro, scongiurando così attacchi indistinti alla popolazione.

«Prendete anche lei!» disse una voce a me molto familiare. «Quella ragazza è impura, deve morire!»

«Sì, padre» rispose con devozione il soldato.

Dopo avermi ripetutamente usato per soddisfare i suoi istinti, quel servitore della Dea decise che era giunto il momento di gettarmi via, prima che potessi rovinare la sua reputazione.

Non aveva idea di che regalo mi stesse facendo, io non desideravo altro che morire.

Ci trascinarono insieme ad altri sfortunati in una gabbia, montata su un carro fino al limitare delle caverne infestate dai non morti.

LA TORRE SCARLATTA - Destini Intrecciati (Libro 1)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora