27 - L'unica ragione

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L'ultimo giorno di quell'inferno fu una domenica, quando le cose si complicavano perché non c'erano né lezioni né compiti per casa. Per starle lontano avevo iniziato a seguire dei programmi a caso in televisione fin dal primo mattino, ma dopo aver fatto colazione Sarah mi venne accanto nel tentativo di conversare, avvicinandosi molto più del solito.

Non appena la sentii così vicina provai il forte desiderio di stringerla tra le mie braccia e arrendermi... di rivelarle tutta la verità senza doverle mai più far male con le mie menzogne.

Così avrei combinato un disastro.

Strinsi i pugni sul divano, costringendomi a tenere gli occhi fissi sullo schermo della televisione nonostante lei mi stesse parlando.

«Oggi è una bella giornata, ormai è marzo e le temperature si sono alzate. Più tardi ti andrebbe di uscire?». Era una delle frasi più lunghe che mi aveva rivolto di recente.

E ora? Che scuse avevo per dirle di no?

«Va bene» accettai con voce appositamente atona.

Ci mancava l'arrivo della primavera a complicare le cose. La guardai di sfuggita e in effetti mi accorsi che indossava dei vestiti più leggeri del solito, che mettevano in risalto la sua corporatura esile ed armonica. Era stupenda, così bella che... mi ritrovai a fuggire da lei per non rischiare di commettere altre irreparabili sciocchezze.

O almeno così credevo, invece la più grande sciocchezza fu proprio andarmene senza motivo apparente. In quel modo, senza saperlo, avevo appena superato il limite della sua sopportazione.

Andai nella mia stanza e mi lasciai sprofondare sul letto, preoccupato e demotivato dall'espressione ferita con cui Sarah mi aveva guardato allontanarmi. Che cosa stavo facendo? Non ero capace di gestire quella situazione, le stavo facendo troppo male...

E infatti, una manciata di secondi dopo, la trovai davanti alla mia porta, seminascosta dallo stipite a cui era appoggiata come in cerca del sostegno che io non potevo più darle.

Respirai profondamente per calmarmi prima di affrontarla e non agire d'istinto, ma stavolta fu lei a scoppiare.

«Smettila di fare così! E' ingiusto, non merito questo trattamento!» mi sgridò.

Mi lasciò a bocca aperta. La mia Sarah non aveva ancora imparato a parlare così schiettamente... se lo faceva, significava che l'avevo portata all'esasperazione.

In un secondo fui accanto a lei, a imprigionarle il visto tra le mie mani. Aveva le guance rigate dalle lacrime e gli occhi arrossati, ecco perché si nascondeva.

«Stai piangendo» realizzai con una morsa allo stomaco. Quello sguardo disperato non avrei mai più potuto dimenticarlo.

Strinse le mie braccia con quel poco di forza di cui disponeva, a metà tra rabbia e desiderio di non lasciarmi allontanare. Avevo davvero esagerato.

«Certo che sto piangendo, mi stai facendo impazzire! Che ti succede, Abel? Posso accettare che ci sono argomenti di cui non vuoi parlarmi, posso accettare che vuoi prendere le distanze per non legarti a me più del dovuto, ma ora ti stai comportando come se non mi sopportassi più!».

Ero senza parole. Se ormai la conoscevo bene, si rese conto troppo tardi di quanto fosse stata esplicita. Sussultò per la consapevolezza delle sue stesse parole e si coprì il viso dalla vergogna... ma ormai era inutile nascondersi: aveva detto troppo.

Ormai dovevamo affrontare la situazione.

Scostai le sue mani, costringendola a scoprire il viso con tutta la gentilezza di cui ero capace. La sua rabbia sembrava già essersi dissolta.

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