Capitolo 2

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IL GHETTO

Il villaggio non è enorme, ma da come è strutturato pare molto più grande. Molto più grande di quello che pareva dall'esterno, quanto meno.
Sembra un college americano, di quelli che si vedono nelle foto di prima della guerra: con edifici di cemento grigio e ampi spazi verdi.
-Ma che posto è? -
Valentyn sembra più stupito di me, il che è tutto dire.
-Vi spiegherà tutto il Nonno, venite.-
Andiamo dietro al tipo con le branchie che ci conduce all'interno di uno degli edifici e ci guida nell'intrico di corridoi fino ad una porta blu. È stupenda: di frassino, credo, dipinta con quel tipo di vernice che lascia intravvedere le venature del legno.
È decorata con una cornice a volute e una scritta svolazzante dipinta in argento proprio al centro: God save the strange people.
Dio salvi la gente strana?
Ok, davvero molto sensato...
-Forza, entrate.- ordina Mr. Branchia
-Lei non viene?-
Valentyn sembra in ansia.
-No, vi aspetto qui fuori: il Nonno vuole parlarvi da solo. Ora andate, avanti: non gli piace aspettare.-
Vedendo che il ragazzo non muove un dito tiro un sospiro ansioso e faccio per poggiare la mano sulla maniglia, ma, udite udite, siccome questa giornata è stata troppo normale, la porta decide di precedermi e si apre da sola, tipo storia horror.
Fisso per un attimo gli occhi di ghiaccio di Valentyn che si sciolgono nello stupore, poi entro e lo sento seguirmi.
La stanza dove ci troviamo ora sembra la torre di un vecchio mago: ci sono libri sparsi in pile disordinate un po' ovunque, modellini di un sacco di cose strane, tipo una  torre triangolare di acciaio, e barattoli di liquidi, polveri e schifezze d'ogni tipo affollano gli scaffali alle pareti.
Il fuoco danza scoppiettante nel camino, attorno al quale sono appesi mazzi d'erbe aromatiche che spargono il loro profumo in tutto il locale.
-Eccoli qua, i nostri due nuovi arrivi. Proprio voi aspettavo. Sedetevi pure.-
C'é un vecchietto seduto dietro una scrivania della stessa foggia della porta, ma del normale marrone scuro del legno.
È piuttosto piccolo, rugoso come se avesse centocinquant' anni, con dei capelli bianchi come il sale che gli arrivano fino alle spalle e una barba così lunga che gli sfiora la cintola.
Gli occhi azzurri ci scrutano attravaerso gli occhiali spessi come fondi di bottiglia mentre indica due sedie dall'aria antica e solida.
Mentre mi siedo non riesco a fare a meno di pensare a quanti sederi mutanti devono aver visto queste sedie in tutti questi anni.
Io e Valentyn ci mettiamo comodi e lui riprende a parlare.
-Immagino che vorrete sapere cos'é questo posto. Ebbene, miei giovani amici, vi trovate in un campo costruito nel dopo Guerra dal Governo Mondiale apposta per ospitare le persone come noi, la Gente Strana. Noi lo chiamiamo il Ghetto. Vedete ragazzi, lá fuori, nel mondo degli umani, la gente ci odia e restando all'esterno mettiamo a rischio la nostra vita e quella degli altri, qui invece ci siamo organizzati.-
Valentyn si guarda attorno con aria confusa.
-Quindi qui dentro sono tutti mutanti?- chiede.
Il vecchietto gli rivolge una mezza occhiataccia e fa un gesto scocciato.
-Caro ragazzo, noi preferiamo chiamarci Gente Strana e non mutanti. Comunque sì: qui dentro vivono circa duecento persone, ma nessuno è propriamente umano. Io, per esempio, ho duecento e cinquant'anni.-
-Duecento e cinquanta?- chiedo scettica.
Andiamo, ora mi dirà anche che Babbo Natale esiste...
-Quindi lei ha visto la guerra?-
Lui sospira e un'ombra di tristezza attraversa i suoi occhi.
-Sì, purtroppo sì. C'é qualcosa di particolare che vorreste sapere?-
Ormai ho rotto il ghiaccio, tanto vale placare la curiosità.
-Perché succede?- chiedo -Insomma, perché siamo... questo?-
-Come penso sappiate alla fine della guerra vennero sganciate parecchie bombe nucleari. Tuttavia, queste emettevano radiazioni diverse da quelle delle nucleari tradizionali. Erano più veloci a dissolversi e avevano effetti diversi sul DNA: lo miglioravano invece che peggiorarlo, per questo esistiamo noi. Anche se in quantità minori queste radiazioni erano presenti nell'atmosfera anche prima della guerra, e quando a volte saltava fuori un Longevo, cioè uno come me, semplicemente bastava che cambiasse abitazione molto spesso, in modo che la gente non si abituasse. Poi, dopo la Guerra, siccome la Gente Strana era aumentata parecchio di numero è stato costruito questo posto... comunque i vostri compagni di stanza vi spiegheranno meglio, ora veniamo alle cose importanti: siccome non vogliamo che vi sentiate legati a quello che avete combinato nella vostra vita di prima, avete diritto di scegliere un nuovo nome, siete interessati?-
Valentyn nemmeno ci pensa e risponde a colpo sicuro.
-No, grazie, mi va bene Valentyn.-
Io sono tentata. Non che Luna non mi piaccia, ma... non so, ci vorrebbe qualcosa di più appropriato.
E poi, se proprio devo dirlo, mi è sempre sembrato un nome da cane.
-Mórrígan.-
L'idea mi salta in mente all'improvviso e in effetti mi sembra niente male.
-Mi piacerebbe chiamarmi Mórrígan.-
-Benissimo.-
Il vecchietto scrive il mio nuovo nome su quello che ha tutta l'aria di essere un registro.
-Signorina De Angelis, tu puoi sistemarti nella stanza 715, nell'ala nord, mente il signor Lindgren starà nella 228, ala est. Ora potete andare.-
Ci alziamo dalle sedie e Valentyn fa per aprire la porta... ma il nonno fa un salto sulla sedia.
-Fermi fermi fermi!- urla -Ho scordato le chiavi di volta!-
Torniamo diligentemente a sederci dove eravamo prima, mentre lui sparisce sotto la scrivania e ne riemerge con una scatola di cartone e una ragnatela impigliata nella barba.
-Scusate- biascica aprendola -Ma sapete com'é, alla mia età...-
Estrae un bracciale a forma di treccia fatto di cuoio e spesso più o meno un centimetro e lo da a Valentyn, poi tira fuori uno di quei bracciali a forma di serpente arrotolato che ho sempre adorato anche se sono un po' inquietanti e me lo passa.
Mi fermo un secondo a guardarlo: è di metallo nero con dei disegni simili a rune incisi sopra e due pietre nere e levigate al posto degli occhi.
È decisamente inquietante, ma anche altamente figo.
-Come li ha chiamati prima?- domanda Valentyn.
-Chiavi di volta. Li chiamiamo così perché innanzi tutto servono da chiavi elettroniche e poi interagiscono con il vostro cervello per innoltrarvi messaggi dal centro e per orientarvi. Prima che me lo chiediate: tranquilli, non vi leggono nella mente. Servono anche come modalità di identificazione e controllano i vostri segnali vitali, quindi teneteli sempre.-
Faccio spalluce e mi infilo il mio.
-Ora potete andare.- conclude il vecchietto -Le chiavi di volta vi guideranno.-
Io e Valentyn ci ritroviamo fuori in un attimo e constato che il tipo con le branchie non ci ha aspettato come aveva promesso di fare.
-Tu ci hai capito qualcosa?- mi chiede dopo una trentina di secondi che ci guardiamo in silenzio.
-Qualcosa. In ogni caso è stato un piacere, ci vediamo, vero?-
Mi sorride.
-Certo Mórrígan.-
Mi piace questo nome. Cristo se mi piace.
Lo saluto e comincio a seguire un percorso che mi sembra di conoscere, anche se questo posto non l'ho mai visto in vita mia.
Forse è cosi che funziona la Chiave di volta. Inquietante.
Dopo qualche minuto di cammino arrivo in quella che intuisco essere l'ala nord, che a quanto pare è divisa in dormitori. Mi ci vuole un po', ma alla fine mi ritrovo davanti ad una porta tipo quelle delle scuole con appeso un cartello che recita stanze da 705 a 715. Al postro della serratura sotto la maniglia c'é una specie di pannello di circa dieci centimetri per cinque illuminato di rosso. Strano, tutte le porte degli altri dormitori erano spalancate. Poggio la mano sulla maniglia e la luce diventa verde. Comodo. Sbuco in un corridoio piuttosto corto con cinque porte per lato. La 715 è l'ultima a sinistra.
Mi ci fermo davanti e prendo un profondo respiro.
A quanto ho capito le stanze sono doppie. Spero di non ammazzare nessuno.
Stringo la maniglia e un pannello identico all'altro diventa verde, esattamente come l'altro.
Altro respiro profondo... apro.
La camera non è molto grande, ma neanche piccola.
Da un lato un piano lungo circa due metri e mezzi e largo settantacinque centimetri è inchiodato al muro a mo' di scrivania ed è sormontato da due mensole, di cui una è stracarica di CD. Nella parete in fondo si apre una finestra che lascia vedere il paesaggio innevato, con un davanzale su cui è appoggiato uno stereo. Dall'altro, invece, addossati alla parete ci sono un armadio e un letto a castello. Sul letto più basso c'é una ragazza sui quindici anni piuttosto strana: è talmente magra da sembrare anoressica, ha la carnagione scura, i capelli tinti (almeno credo che siano tinti) di lilla pastello e gli occhi, contornati di eyeliner nero, decisamente viola.
All'inizio non si accorge di me, sembra troppo presa dalla musica che esce dallo stereo. Stereo che, tra le altre cose, ha la spina staccata.
Come musica è parecchio strana comunque: questo genere non l'ho mai sentito, ma mi piace.
È molto... particolare.
Il cantante ha una voce stupenda: è palesemente un uomo, ma ha un timbro particolarmente alto e... non lo so, è strano. Mi piace.
La ragazza si gira e mi guarda.
-Ehi, ciao. Scusa non ti ho sentita entrare.-
Mi rivolge un sorriso.
Non sono più tanto sicura che i suoi capelli siano tinti.
Schiocca le dita e lo stereo si spegne.
Inutile, la domanda mi scappa.
-Che roba era?-
Lei continua a guardarmi: mi sta studiando e ovviamente mi sta fissando gli occhi.
-Road Untraveled, Linkin Park. Sono un gruppo americano di prima della guerra... un mio amico li adora e mi ha ha passato qualche loro album, ma non mi piacciono granché. Li vuoi tu?-.
Qui dentro c'è musica di prima della guerra? La cosa si fa interessante.
-Be'... grazie.-
Si batte una mano sulla fronte.
-Oh, che maleducata: non mi sono presentata. Mi chiamo Brooke Morrison, ho sedici anni, sono di origini inglesi e muovo le cose con il pensiero... e carico le batterie.-
Sorride, appena ha finito di parlare.
-E tu?- chiede poi con dolcezza.
-Dunque, io... io... il mio nome è Lu... Mórrígan De Angelis. Ho tredici anni, sono italiana e...nmeno parliamo di quello che so fare e meglio è.-
Annuisce, comprensiva.
-Così ti hanno messa nel Braccio della Morte, eh Mórrígan?-
Annuisco distrattamente.
-Eh, gi...-
Aspetta, cosa?
-Come sarebbe a dire il Braccio della...-
Brooke mi guarda per un secondo, poi scoppia a ridere.
-Tranquilla, è ironico! Non è veramente un Braccio della Morte. Il dormitorio ha questo soprannome perché è quello in cui mettono quelli con mutazioni potenzialmente mortali per gli altri. Non ci ammazzeranno.-
Be', non sono sicura che per me sarebbe stato un problema, in ogni caso.
Mi guardo attorno: non mi dispiace questo posto.
-Tu come sei arrivata qui?-
Comincio a disfare la borsa e a ficcare alla rinfusa la mia roba in quella che intuisco essere la mia parte di armadio.
-Non ci sono arrivata, ci sono nata.-
Mi sporgo un po' oltre l'anta per vederla in faccia.
-In che senso?-
Brooke mi guarda divertita.
-Nel senso che sono nata qui dentro. Come i miei genitori d'altronde. La maggior parte della Gente Strana nasce qui, perché ormai all'esterno ne salta fuori sempre meno. Voi tre di quest'anno siete i primi da una ventina d'anni.- mi spiega.
La cosa da interessante sta diventando inquietante.
Mi fissa senza proferire parola, aspettando il mio giudizio, che non arriverà... non ho il diritto di giudicare le persone, visto cosa sono io.
-Credo mi sia sfuggito il nome di questo posto.- borbotto.
Qualcuno doveva spezzare questo silenzio imbarazzato che si è creato fra di noi.
-S.P.H.I., che è l'abbreviazione di Strange People Home Istitute, noi però lo chiamiamo semplicemente il Ghetto. A proposito: benvenuta.-

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