Memories
Abyss POV
Ascolto la canzone talmente tante volte che perdo il conto. Quella canzone mi fa sempre sentire un po' meno incazzato con il mondo, e non so nemmeno esattamente perché.
Non so nemmeno quanto tempo sia passato, quando riapro gli occhi e decido che sono stufo di stare sdraiato su un letto (o meglio, su una branda scassata) a fare niente.
Mi alzo, mi stiracchio e raccolgo un paio di libri per andare in biblioteca a studiare: come ho detto prima, è vero che mi rifiuto di essere valutato, ma non sono stupido. E poi studiare aiuta a non pensare per un paio d'ore. Spengo lo stereo e vado verso la porta.
Non getto neanche uno sguardo indietro perché infondo questa non è nemmeno davvero la mia stanza. Solo un altro alloggio di passaggio, come tutti gli altri. Apro e mi chiudo la porta alle spalle. Mi fermo solo un'attimo sulla soglia, giusto per dare uno sguardo al corridoio e cercare qualche minima cosa che sappia di casa.
Odio questo posto è l'unica cosa che mi viene, e allora mando tutto a quel paese e mi rimetto a camminare.
Lo so, lo so: un secondo prima penso che non sarò mai a casa e poi cerco di sentirmi a casa. Sono una contraddizione che cammina, o un paradosso in jeans e camicia di flanella, volendola mettere in un altro modo, ma a volte vorrei davvero essere non dico normale, ma almeno uno strano relativamente nella media.
Vorrei potermi abituare a questo posto, potermi godere questo angolo di perfezione nel mondo di merda in cui vivo senza dovermi fare tutto questo casino di seghe mentali da maniaco del complotto.
E sì, mi piacerebbe anche potermi sentire a casa, avere per una volta persone che mi vogliano bene. L'unica è stata mia nonna, e forse... no, solo mia nonna.
Di nuovo non incontro neanche uno Spettro, mentre mi aggiro come un'anima in pena per i cunicoli bui e grigi. Certo che potevano almeno farlo un po' più allegro, 'sto posto.
La biblioteca è al secondo piano, mentre i dormitori sono nel seminterrato, quindi salgo anche un paio di rampe di scale, puntualmente deserte. Alla fine decido di fermarmi sul pianerottolo del secondo piano e aspettare finché non passa qualcuno, tanto per essere sicuro che non siano spariti tutti in un'altra dimensione.
C'é una finestra e mi siedo sul davanzale, poi faccio quello che mi viene meglio: sparisco. Non centra con le mie stranezze (sul serio, qui dentro hanno una passione per le espressioni gergali profondamente idiote), ma ho la stana quanto inquietante capacità di non essere notato quando non voglio. Più che altro è una specie di trucchetto da spia: non dare agli altri un motivo per notarti e nessuno ti noterà.
Guardo fuori: nevica. È una settimana che nevica, qui. E io non ne posso più: non vado matto per la neve, perché dalle mie parti troppa neve significa una dose infinita di rogne.
Mi è sempre piaciuto, però, vedere quei minuscoli fiocchi bianchi che danzano leggeri nell'aria. Resto fermo per un po', immagato. All'improvviso ho voglia di tea alla menta: mia nonna lo fa sempre quando nevica.
Passano cinque, dieci minuti, poi un quarto d'ora, ma nessuno passa, e alla fine decido di mollare tutto e andare in biblioteca a studiare. Cammino con calma, pensando a casa mia.
Non posso dire che mi manchi vivere come prima... cioè, in realtà sì. La Russia era un posto tremendo, ma era pur sempre... casa. Anche se ho sempre fatto fatica a sentirmi a casa.
Mi manca l'idea di non avere un futuro certo, anche se può sembrare strano: non mi piace pensare di non dovermi proccupare di niente, mi sa tanto di finto.
Alla fine apro la porta dello stanzone che viene usata come biblioteca ed entro cercando di non urtare niente. È uno dei posti più disordinati che abbia mai visto: ci sono libri ovunque... sugli scaffali, a terra, sui tavoli, sotto i tavoli... e poi ci sono gingilli vari sparsi dappertutto.
La bibliotecaria, un'Immortale ferma a diciotto anni, mio malgrado mi nota e mi saluta.
-Salti l'addestramento anche oggi, Abyss?-
A quanto ho capito dev'essere di origini giapponesi, infatti ha gli occhi a mandorla e i capelli lisci e scuri, credo che si chiami Juky, o giù di lì.
-Affari miei.-
Do un tono rude alla mia voce: non voglio fare amicizie qui dentro, non è proprio il caso... non di nuovo.
Per la prima volta mi rendo conto che sa il mio nome, anche se io di sicuro non gliel'ho detto... ma in fondo chi se ne importa: finché non mi chiama con il mio vero nome non me ne può fregare di meno. Non la guardo neanche e mi addentro nel labirinto formato dai libri dirigendomi verso la mia poltrona.
A dire il vero più che una poltrona è un vecchio catorcio sgangerato che va perdendo l'imbottitura, ma in questi ultimi due mesi è stata la cosa più vicina ad un rifugio che ho avuto, forse proprio perché cade a pezzi, un po' come il resto del mondo di fuori.
Mi perdo un po' fra i corridoi di vecchi volumi, fischiettando il motivetto un po' inquietante che ho imparato da mia nonna e che lei a sua volta ha imparato da un cartone di Tim Burton che però ha perso. La sposa morta? Qualcosa del genere. È un peccato che l'abbia perso: adoro Tim Burton.
Per l'ennesima volta, anche se ormai so che è inutile, tento di fondere la chiave di volta, sbagliando strada a posta e costringendola a ricalcolare il percorso ogni tre secondi.
Quando alla fine mi arrendo ad arrivare alla mia destinazione però i libri mi cadono di mano.
Nella mia poltrona siede con in mano una copia in italiano di Artemis Fowl e la bocca spalancata in un'espressione sorpresa niente poco di meno della nana bionda con gli occhi rossi. Mórrígan. O qualcosa del genere. Ho già sentito questo nome...
Non ho ancora capito che mutazione abbia, ma dall'accento dev'essere del nord Italia: assomiglia un sacco a quello di mia nonna, anche se è meno marcato...
-Che diavolo ci fai tu qui?- le chiedo più esitante di quello che vorrei.
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Old Strange People
Ciencia FicciónSono passati cento anni. Cento anni da una guerra spaventosa. Cento anni dalla quasi fine del mondo. Cento anni dalla quasi fine dell'umanità. Del mondo come lo conosciamo noi non è rimasto quasi niente, soltanto qualche villaggio fatiscente e grupp...