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Dovetti quindi mentire, ma mentire bene. Non dovevo dire cose scontate che potessero far comprendere male le mie intenzioni portandoli a credere che fossi realmente pazza! Di nuovo la paura mi accoltellò.

Sentii Bill parlare al telefono «Si mamma sta bene» guardandomi con aria triste e arrabbiata allo stesso tempo. Venne verso di me e stese il braccio con il telefono senza guardarmi negli occhi: «Mamma vuole parlarti". Presi il telefono. «Mamma!". La sua voce era straziante, potevo percepire attraverso il suono della sua voce le sue lacrime scendere dagli occhi e il fazzoletto fradicio stretto in mano attaccato alla cornetta del telefono: «Amore mio stai bene? Cosa ti è successo? Quando torni a casa non vedo l'ora di abbracciarti. Ho avvertito papà ed era preoccupato anche lui. Voleva addirittura lasciare tutto e venire da te. Per fortuna sei tornata. Ti prego dimmi che stai bene!».

Mi sorprese che la mamma non si arrabbiò con me. Forse lo era, ma la sofferenza era talmente profonda e dolorante che arrabbiarsi non serviva a nulla.

Potei solo immaginare il suo dolore. Aveva già provato quelle sensazioni: prima con il figlio neonato, poi con Bill e ora con me.

Mi sentivo in colpa per aver reagito in quel modo, per averla delusa. Se c'era una persona che non volevo davvero preoccupare o farla stare male di sicuro era mia madre. Bill mi guardava con aria triste e seria. Era davvero arrabbiato con me. Vedevo i soliti gruppetti da lontano guardami e ridacchiare subito dopo.

Mi sentivo un fenomeno da baraccone. Salutai la mamma rassicurandole di stare bene. Il suo timore più grande era quello di aver incontrato per strada qualche balordo. La rassicurai di ogni cosa. Le dissi subito che fu una bravata come quella che fece Bill. Lui sentì tutta la nostra conversazione. Era amareggiato da ciò che avevo appena detto. Quando gli riconsegnai il telefono me lo prese con forza e scontrosità, quasi strappandomi il braccio.

«Bravata? Sul serio pensi che abbia fatto una bravata? Allora non hai capito un cazzo di me Evelyn!". «Ti prego Bill cerca di capire volevo rassicurare la mamma».

«Certo, mettendomi in causa giusto?».

«Ti supplico non farmi questo, io ho bisogno di te». «Ah ora hai bisogno di me? Scappando in quel modo? Sai una cosa? Ti credevo più intelligente, ma mi sbagliavo, sei solo stupida!».

Da quelle parole provenire dalla sua bocca caddi profondamente nel buio. Se solo avesse saputo la verità.

Mi ritrovai nuovamente sola come quando scoprii dell'adozione. E quando dovetti nasconderlo a Bill trovando il coraggio di confessarglielo. Ma stavolta era diverso. Era una cosa ben più difficile e surreale per poterla raccontare, soprattutto a lui.

«Mi accompagni alla centrale?»

Mi tenne il muso per tutto il tempo. Ma non mi abbandonò nonostante fosse arrabbiato con me anche se voleva ferirmi con le parole, quasi fosse diventato un genitore:

«Sei testarda, stupida. Cosa pensavi di fare, cosa? Di spaventarci a morte con i tuoi comportamenti idioti? Non sei più una bambina che puoi fare i capricci quando ti pare!». «Ti ho già detto che mi dispiace! Sono qui mi vedi? Adesso smettila». «Non la smetto, e prova ancora a dirmi di smetterla e ti giuro che non parleremo mai più!». «Va bene ok scusami ma adesso calmati, ti supplico!».

Decise dunque di accompagnarmi in centrale. Non potè salire in macchina e così ci seguì con la sua. Arrivati, entrai in un ufficio e due agenti iniziarono a farmi delle domande. Risposi a tutto e soprattuto quella che sapevo mi avrebbero posto: «Perché sei scappata?». Risposi come feci a chiunque: «Per via di un ragazzo». Mi credettero.

Era una cosa ormai scontata da parte dei poliziotti sentire adolescenti scappare per questi motivi, ormai diventati futili. L'interrogazione durò meno di un'ora. Uscì dall'ufficio e Bill era seduto in corridoio ad aspettarmi, dondolando su e giù con i piedi e le gambe distese. Tornammo a casa con la macchina di Bill.

Non mi parlò per l'intera serata. Gli dissi più volte scusa in macchina e anche a casa ma lui non mi rivolse la parola. Mi aveva già fatto abbastanza la ramanzina. Mi rinchiusi in camera e cominciai a piangere, meditando su tutto. Mi guardai allo specchio con le lacrime che continuarono a colarmi dagli occhi.

Pensai che tutto questo doveva finire, in qualche modo dovevo lasciarlo andare e io ricominciare da capo. Tutto quello che provavo per lui doveva svanire. Dovevo pensare alla mia felicità e anche se stare con Bill mi riempiva di una felicità sovrastante, allo stesso tempo recavo sofferenza alle persone intorno a me, anche se andava contro la mia volontà. Quella sera presi una decisione e me la imposi, come un regola ferrea della mia vita: cominciare da zero, lasciarmi alle spalle tutto l'accaduto. Dimenticare Bill. Mi misi una mano sul petto e chiusi gli occhi. «Devo dimenticarlo, devo toglierlo dalla mia testa».

Ma non ci riuscii e così decisi di scriverlo sul mio diario. In qualche modo avrei sprigionato tutto attraverso l'uso della penna e sicuramente sarei stata meglio sfogandomi sul diario:

"Mi sento vuota, debole, incapace di agire. Non so più cosa fare. La mia mente agisce in un modo ma il mio corpo non mi ascolta. Mi odio per questo. Non riesco a controllarmi. Vorrei avere quella forza che tanto mi manca e riuscire a sollevarmi. Perché mi sto facendo del male e perché sto facendo del male alle persone che amo? Non se lo meritano. Ma il dolore che provo è allo stesso tempo la cosa più bella che mi sia capitata. Sono masochista. Sono una delusione totale. La mia punizione è quella di soffrire e ancora peggio dimenticare ed è ciò che farò".

HAPPENED 1 - (Così lontani, così vicini)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora