Piacere riflesso

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Clara era intenta a friggere le melanzane che sarebbero servite per preparare la sua succulenta parmigiana, il piatto preferito di Lara. Per Clara era un'abitudine consolidata viziare la figlia, non con grandi opere, ma con piccoli gesti quotidiani, nei quali infondeva il succoso nettare del suo amore smisurato per Lara. Dall'orto, raccoglieva per lei i frutti più maturi e dolci; quando cucinava, inventava sempre nuove pietanze, con gli ingredienti che sapeva essere graditi alla sua pargola. Amava così Clara, con il cuore sulle mani, avendo l'intenzione di colmare quel vuoto d'amore che bucava l'anima di Lara da un tempo così lungo che poteva chiamarsi "sempre", il sempre di una vita breve ma segnata da dolori lunghi come i chiodi di una croce, che trapassano l'anima da parte a parte. Povera Clara, non avrebbe mai colmato quel vuoto, nemmeno se ci avesse ficcato dentro per l'eternità tutto l'amore che poteva. Il nulla non può essere riempito, ingurgita tutto e ha sempre fame di altro.

La stanza era pullulante di fumo di frittura, ridondante di un pungente odore di fritto, quando Lara entrò dalla porta come una furia e, senza badare alla madre che armeggiava tra i fornelli, salì le scale con grossi balzi, per andare a barricarsi nel suo nido. Chiuse la porta alle proprie spalle, così come avrebbe voluto chiudere fuori da sé quella corruttela emozionale che le sfrigolava dentro. Affogò il suo corpo tra le lenzuola bianche e rosa, umida e calda d'acqua e di sudore e guardò il viscido ingarbuglio di sentimenti che le scivolava dentro, infiltrandosi tra le pieghe dell'anima. Il profumo di Giovanni le invadeva copioso le nari e sentiva ancora nel ventre i colpi profondi con cui l'aveva posseduta. Persa nel suo labirinto emozionale, neppure sentì la porta che si apriva.

"Tesoruccio, che succede? Sei corsa su per le scale come una pazza. Tutto ok?"

Fece una breve pausa, forse in attesa di una risposta.

"Ti sto preparando la parmigiana di melanzane, sei contenta?"

Lara avrebbe voluto dire alla madre di lasciarla in pace ma non ebbe il coraggio, l'amava troppo per ferirla in quel modo e sapeva che qualsiasi parola brusca pronunciata da lei sarebbe stata per il suo cuore una frustata troppo dura da tollerare. Mise su l'espressione più serena che riuscì a trovare, frugandosi dentro e scansando qua e là nugoli di angoscia.

"Certo, non vedo l'ora di mangiarla! Scusa se non ti ho nemmeno salutata, sono un po' stanca! Riposo un pochino, mi chiami quando è pronta la tua buonissima parmigiana?"

Clara sembrò soddisfatta dalla risposta della figlia, anche se non le sfuggì il baluginio insolito che le vide incastonato tra le ciglia.

"Certo amore! Riposati pure! Ti chiamo io quando è pronta la cena!"

Le infilò un bacio tra i cirri selvatici e scivolò fuori dalla stanza, avvolta nel suo prendisole odoroso di fritto e di sugo di pomodori, di parmigiano e di melanzane, di uova fresche e d'amore. Lara rimase lì, accoccolata tra le pieghe delle lenzuola, profumate di lavanda. Si sentiva corrotta da un sentimento mai provato prima, un'onda scrosciante che le pervadeva ogni centimetro del corpo, un morbo che le succhiava l'anima. Non poteva comprendere la natura di quel sentimento che le spaccava la pelle e che rendeva la sua carne più svilita che mai.

Prima di scendere per la cena, Lara indugiò a scrutare il riflesso del suo corpo nella specchiera, contornata da un motivo rosso a mosaico. Lo faceva spesso, si metteva in piedi, nuda, di fronte a quel pozzo misterioso che le rimandava un'immagine in cui, spesso, le pareva difficile riconoscersi. Accarezzava i contorni nitidi della sua immagine riflessa, si perdeva in ogni curva, le curve ribelli dei capelli, quella decisa del mento, quella morbida delle spalle, le curve sensuali dei seni piccoli e quelle sinuose dei fianchi. Seguiva la linea flessuosa delle gambe, fino ad accoccolare lo sguardo tra le caviglie, dove si formava una feritoia che pareva affacciarsi oltre la realtà. Poi risaliva lungo il percorso e si appollaiava tra le cosce, dove si stagliava, florida, la peluria riottosa che nascondeva il suo sesso. Anche quella sera non resistette alla tentazione mordace di accarezzarla, con la punta delle sue dita affusolate, creando circonferenze cariche di malizia, fino a penetrarvi delicata, infilandosi dentro la carne rosa, morbida, umida, per cercare il liquido che sentiva sciabordare dall'anima. Una scossa la sorprese e le si piazzò di fronte l'immagine di Giovanni, scolpita nel marmo duro dei ricordi recenti, freschi, dolenti. Si sentiva traviata dal quel pensiero invadente e dalla pruriginosa eccitazione che questo le provocava. Chiuse gli occhi per tentare invano di ingoiare quell'immagine, mentre lo specchio sputava fuori la figura baluginante del suo volto, infuocato dai colori del tramonto che si intrufolavano tra le persiane, languidi, caldi, inebrianti. Le dita si fecero più ardite, invadenti, folli, mentre lo sguardo si celava alla realtà, infarinandosi della spessa cataratta dell'immaginazione. Le pupille si dilatarono al punto da sembrare voler sconfinare oltre l'iride, per traboccare da quel fragile confine nerastro che gli fa da recinto. Le labbra, ancora rosse e pulsanti di baci violenti, si schiusero al piacere, lasciando sgorgare fuori un gemito lieve, sordo, silenziato dalla paura di essere ascoltata. La mano sinistra raggiunse la bocca e gli incisivi afferrarono l'indice e il medio, fino a lasciare l'impronta sulla carne sottile, insieme ad una scia viscida di saliva. Un'onda di contrazioni ritmiche si espanse dal centro delle cosce per corrompere tutto il corpo. Il liquido, furioso, scivolò dal sesso come una vischiosa cascata, invadendo copiosamente le dita della mano ardita. La schiena si inclinò leggermente, e le ginocchia si piegarono appena, mentre le gambe furono colte da un fremito improvviso, come foglie leccate da un vento audace. Lo specchio, inerme spettatore, accolse il riflesso di quella che sembrava un dea immersa nel dolore gaudente della rinascita. Con lo sguardo ancora paludato dentro l'involucro denso del piacere, le gambe tremanti e il cuore frantumato da battiti scomposti e rumorosi, corse in bagno. Si ficcò sotto il getto freddo della doccia, per cercare di attenuare le fiamme che esplodevano nell'anima. La mano destra, ancora imbrattata del suo orgasmo, fece da calice ad un generoso fiotto di bagnoschiuma all'ortensia, una nuova chicca che la mamma aveva scovato per lei in qualche profumeria. Si strofinò la pelle con violenza, per lavare via l'odore del sesso e di lui, massaggiò i capelli con lo shampoo alla camomilla, ma i pensieri di cui si voleva liberare rimasero impicciati tra i boccoli. Uscì dalla doccia e avviluppò il suo corpicino scivoloso nel bianco latte dell'accappatoio di lino, tirò su il cappuccio, per tamponare i capelli gocciolanti e si strofinò il viso con le maniche larghe. Si specchiò nella nebbia opaca del vapore, si vide come un'antica sacerdotessa veggente, un oracolo di oscuri destini, appostati presso gli angoli bui e polverosi della vita degli uomini. Una smorfia scontrosa le uccise le labbra, una luce abbacinante le passò sul cuore e le parve di sentire l'eco di sofferenze future, un sibilo orripilante e miasmatico. Un suono sbiadito bucò il pavimento, schiaffeggiò la sensazione delirante che l'aveva posseduta, per piantarsi dritto nel cervello, in tutta la sua imminente realtà: la madre la chiamava per la cena.

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