Rinascita

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Era trascorso circa un mese dal terribile giorno e Lara iniziava a riprendere in mano le redini massicce della quotidianità. Aveva ripreso a mangiare, cedendo ai pizzichi della fame, e aveva ricominciato ad uscire, ritrovando il tiepido piacere di passeggiare tra i sentieri familiari della sua campagna. Stava imparando lentamente ad accettare il lutto, a viverlo, ma ancora non era riuscita a recarsi al cimitero e neppure aveva avuto il coraggio di andare alla cascata. Sapeva che erano due azioni indispensabili per una completa e piena accettazione della dura realtà, ma la tempesta in cui la vita l'aveva crudelmente catapultata le stava insegnando a prendersi i suoi tempi, resistendo alla tentazione di essere precipitosa. Arrivare precocemente ai traguardi era sempre stato il suo vizio più pericoloso, mordere avidamente la vita poteva essere, ora, più controproducente che mai.

Le giornate si dispiegavano davanti a Lara come tele enormi, dilatando in maniera esagerata i secondi, i minuti e le ore. Si abbandonava spesso a pianti disperati, per poi ricomporsi e affaccendarsi nelle azioni minime che le recavano un conforto ancora più gradito di prima, prima della tragedia. Lavare i piatti, spazzare a terra, spolverare, fare il bucato erano i luoghi cari in cui rifugiarsi per un po' dalle sferzate della sofferenza e della nostalgia. Anche i ricordi erano diventati troppo ingombranti e assillanti. Le tendevano agguati improvvisi, si appostavano dietro gli angoli più reconditi della giornata, per saltarle addosso e succhiarle la linfa dell'anima, senza pietà. A volte, al mattino, mentre era incastrata col cuore tra il sonno e la veglia, la raggiungeva la risata lontana e ovattata di Giovanni e si svegliava con l'ansia di ascoltarla più da vicino, con l'illusione che il suo amore potesse, da un momento all'altro, aprire la porta della sua stanza e correre da lei ad abbracciarla. Erano quelli gli istanti più duri da sopportare, quei morsi dell'inconscio che si ostinava a creare una realtà più accettabile, tentando invano di cancellare il passato, l'accaduto, la morte. Si sentiva schiacciata sotto il peso di quell'illusione che si prendeva gioco di lei. Aveva iniziato a disegnare in modo ossessivo il volto di Giovanni, ricalcandone i contorni con le matite colorate, per paura che scolorissero col tempo. Non aveva neppure una sua foto, a volte aveva paura di dimenticarlo e questo non avrebbe mai potuto accettarlo.

Non aveva molta voglia di compagnia, amava perdersi nel labirinto della propria solitudine e lì trovare modi inconsueti di metabolizzare il suo dolore. Dalla madre accettava solo abbracci, carezze, baci e ogni gesto che riuscisse in qualche modo a coccolarla, catapultandola in una dimensione infantile, da cui traeva una certa e indispensabile dose di nutrimento e di consolazione. Della zia Katia apprezzava la semplice presenza, gli sguardi discreti e affettuosi, le tisane che le portava in camera e le torte che preparava per lei con burro, uova, zucchero, farina, cacao e amore. Gaia era un discorso a parte, si trastullava trascorrendo ore a guardarla giocare e, quando la bambina la coinvolgeva nei suoi giochi scroscianti di sogni, si lasciava intrappolare dentro quegli spicchi di irrealtà. Si strappava la pelle di dosso per infilarsi, a seconda dei desideri della cuginetta, nel manto peloso e morbido di uno scoiattolo furbo, nella pelle fatta di polvere di stelle di una fatina dei dolci, nella pelliccia nera di una gatta dispettosa o, semplicemente, nell'involucro duro e legnoso di un tavolino dove si serviva il tè alle bambole. Di Don Antonio apprezzava, perlopiù, la presenza maschile, la voce suadente che si infilava in punta di piedi nelle sue orecchie, facendo attenzione a non ferirla, lo sguardo impregnato d'amore che non aveva mai notato prima, l'assenza di frasi banali e banalizzanti che di solito gli uomini di Dio amano pronunciare di fronte ai lutti. Più di ogni altra cosa, amava il modo che aveva di gesticolare con le mani mentre parlava, perché le ricordava tanto Giovanni.

Quando riprese l'abitudine delle sue passeggiate quotidiane, non mancava mai di recarsi in chiesa, per portare la sua visita alla Vergine e per chiacchierare con Don Antonio. Non poteva dimenticare l'abbraccio in cui l'aveva stretta quel terribile giorno di follia, come non poteva dimenticare il suo profumo di cuoio e vento che la memoria non aveva mancato di registrare in quei momenti di disperazione. Forse, la percezione nella sofferenza diventa più acuta, contrariamente a quanto si può pensare o, perlomeno, per lei era stato così. Il dolore aveva frantumato la nebbiolina densa che ottundeva i sensi; gli odori, i suoni, i tocchi, i colori, tutto era più nitido, quasi da far male. Dentro quell'abbraccio che cullava, si era sentita sbatacchiata come una barca sul mare in tempesta; stretta tra le braccia forti di Don Antonio, aveva quasi temuto, e forse desiderato, di morire soffocata; i suoi lamenti acuti erano dardi infuocati che, sbattendo sulle pareti fredde della chiesa e ritornando a lei come un boomerang, amplificavano enormemente la sua disperazione; i piedi sfregiati dall'asfalto erano un brulicare di pizzichi dolenti, e sentiva le sue lacrime pesare sugli occhi come macigni che minacciavano di affogarli per sempre nell'anima. E, poi, c'era quel profumo di cuoio e vento che prevaleva su quello stantio della chiesa e su quello nauseante dei fiori appassiti, e si infiltrava nelle sue nari come un monito che stava lì a sbatterle in faccia l'esistenza di piaceri che potevano ancora catturare i suoi sensi. Quando incontrava Don Antonio, non poteva fare a meno di mettersi in attesa impaziente di quella percezione olfattiva che l'avrebbe inebriata. Ottundeva volontariamente tutti gli altri sensi, dimenticandosi pure di prestare attenzione alle parole che uscivano dalla bocca del suo interlocutore, fino al momento in cui non arrivava quel profumo a frustarle le narici.

Don Antonio non mancava mai di notare la sua mancanza di attenzione che attribuiva, però, a tutt'altra causa e non aveva quindi l'ardire di fargliela notare. Egli, d'altra parte, quando stava in compagnia di Lara, era tutto impegnato nell'arduo tentativo di nascondere, con discorsi composti, l'emozione che elicitava in lui la sua presenza. Quando, invece, rimaneva solo con se stesso e con la propria coscienza, non poteva fare a meno di chiedersi dove l'avrebbe portato quello scarmigliato sentimento, che ormai cresceva indisturbato dentro la sua anima, piazzato al centro di tutto come un presuntuoso e ingombrante idolo profano.

Il desiderio carnale, che prima lo traviava nel suo essere uomo di chiesa, ministro di Dio, andava mescendosi con qualcosa di più tenero e radicato, qualcosa di più consistente che metteva radici nel suo cuore, una passione inestirpabile che non aveva mai provato prima e che intaccava ancor più profondamente l'essenza del suo essere servo del Signore. Si sentiva come un usurpatore, un millantatore, un disonesto, eppure non poteva in alcun modo remare contro quel sentimento, ostile ad ogni tipo di volontà che tentasse di sminuirlo e refrattario ad ogni tipo di intervento che cercasse di portarlo all'involuzione.


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