Il leone e la gazzella

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Le strade del paese erano ubriache di luce cocente e le piante si piegavano, spossate, sotto i soverchianti raggi del sole; tutto era schiacciato sotto un macigno di calore, mentre le cicale sfondavano il silenzio, con un frinio che stizziva l'udito.

Lara si faceva largo nella coltre appiccicosa di afa, insieme al cestino di vimini che l'accompagnava ignavo, il manico ficcato tra le dita chiuse. Sarebbe andata a cogliere le more selvatiche che crescevano orgogliose tra i cespugli spinosi della campagna e lì, accanto alla cascata, avrebbe incontrato il suo amore. Pensava a lui e alle more; una volta aveva letto che il nome scientifico dei rovi di more era Rubus, accompagnato da un qualche altro curioso appellativo. Ricordò di aver riso come una matta, mentre ripeteva ad alta voce quel nome assurdo che proprio non riusciva ad associare ai cespugli di more, così ricchi, fertili e invitanti. In quel momento, si ritrovò a pensare alla possibilità che gli scienziati e gli studiosi scegliessero volutamente per le cose del mondo nomi particolarmente brutti, con l'obiettivo poco lusinghiero di ficcarle a forza dentro i tristi contenitori classificatori della conoscenza scientifica. Mentre questo pensiero serpeggiava tra i sentieri della sua mente, lo sguardo strisciava lungo l'asfalto tremolante di calore, mentre la camicetta rossa che indossava si appiccicava alla sua pelle, assorbendo il sudore che ne colava copioso.

D'un tratto, sentì una voce familiare pronunciare il suo nome e, quando alzò lo sguardo dall'asfalto, incontrò un volto che pareva uscito fuori da un passato lontanissimo: il volto di Edoardo. Le sembrò che quel ragazzo arrivasse da un'altra epoca, come un vampiro affamato che voleva succhiarle il sangue per ammanettarla alla sua stessa sorte di non vita.

"Lara, perché non ti sei più fatta vedere?"

I suoi occhi rivelavano un coacervo di emozioni negative che andavano dalla semplice delusione alla rabbia più dura e folle. Lara, per un attimo, si sentì schiacciata da quel grumo scuro di negatività.

"Mi dispiace, Edoardo! Ho chiuso con i nostri giochi perversi."

Il suo tono era fermo e risoluto e incastonava una punta di orgoglio. Gli occhi del ragazzo vagarono smarriti sul volto dell'amica di sempre, quasi a voler raccogliere una spiegazione più accettabile da quei pozzi di opale aperti sull'anima.

Lara aveva fretta di andare e le pareva che fosse sufficiente la sua spiegazione perciò rovesciò i suoi occhi nuovamente sull'asfalto e fece per accennare un passo. Ma Edoardo, affamato di lei, bloccò i suoi passi volitivi, afferrandola per un braccio.

"Non puoi fare come ti pare, Lara! Cosa credi? Che sono un giocattolo da buttare via quando ti sei stancata? Io ti voglio ancora!"

Sputò queste parole dritte nel suo orecchio destro e da esse colava una rabbia che a Lara fece paura. Il suo respiro si alterò, insieme al battito del cuore che accelerava, sfondandole la pelle dei seni. Gettò i suoi occhi terrorizzati di gazzella sul leone che la scrutava feroce e beffardo e, non abbastanza terrorizzata da fingesi morta, si divincolò dalla morsa dell'artiglio che la legava e fuggì più in fretta che poteva. Senza voltarsi mai, si avventurò verso il suo luogo sicuro, la sua cascata d'amore, sperando che il leone si stancasse di inseguirla. L'aria calda frustava la sua pelle e il sudore le colava ovunque, pure tra le piaghe dell'anima frastornata, che non capiva cosa stesse accadendo e non si sapeva spiegare perché l'amico di giochi si fosse trasformato in una bestia affamata di sangue. Gli alberi la guardarono sfrecciare tra i loro fusti duri e la terra prese a masticare le gocce di sudore che schizzavano dalla sua pelle. Un letto di sassolini acuminati accolse il suo corpo, dopo che il piede incespicò tra i piedi legnosi di un albero. Edoardo le fu addosso in un attimo, con la ferma volontà di prendersi quello che l'amica le aveva negato. Lara si dimenava, senza pensare alla caviglia dolorante, al ginocchio sbucciato e ai graffi brucianti sugli stinchi. Aveva paura e urlava, mentre il leone le strappava la camicetta, mordendole i seni, e le apriva le gambe con le sue. Chiuse gli occhi, pregando la Madonna di salvarla da quell'animale che le voleva divorare la carne. Pregò intensamente, col cuore gonfio di fede, di paura, di dolore. Sentiva le mani di Edoardo frugare tra le sue cosce e si sentiva sempre più violata e voleva solo che tutto finisse, che fosse solo un brutto sogno. Con gli occhi chiusi e l'anima in ginocchio urlò la sua preghiera al cielo, mentre un desiderio insensato di tornare bambina la strappò al presente. In un attimo sentì svanire via, all'improvviso, il peso che la teneva ancorata al suolo. Poi, sopraggiunsero rumori di ossa contro ossa e carne contro carne, un tramestio maleducato di colpi violenti. Aprì gli occhi impaurita e vide lui. Giovanni era venuto a salvarla, Edoardo fu spacciato in pochi secondi, inerme come un verme sotto i colpi dell'altro che negli occhi recava la furia della morte. Lara dovette schizzare dal suolo, incurante del dolore che le ammaccava il corpo e l'anima, per fermarlo prima che fosse troppo tardi. Si attaccò al corpo di Giovanni, gli occhi bagnati di lacrime, l'anima sanguinante, i sensi confusi e offesi.

"Ti prego, Giovanni, basta! Ti prego!"

Edoardo approfittò di quel momento per raccogliere le sue ossa ammaccate e fuggire via claudicante, con la paura che gli perforava la pelle livida e ferita. Giovanni odorava di sangue e di odio e aveva il fuoco negli occhi e l'amore nel cuore, strinse forte a sé la sua dea ferita e singhiozzante, che affondò dentro la pelle compatta del suo petto, col volto sfigurato di lacrime.

Quando sentì che la ragazza stava per essere abbandonata anche dal più sottile residuo energetico, Giovanni la afferrò tra le braccia e la appoggiò delicatamente sotto l'albero piangente, mettendosi dietro di lei, per accoglierla in un abbraccio pieno e denso. Lara si abbandonò fiduciosamente, vomitando tutto il dolore, la paura e la confusione che il suo corpo aveva trattenuto, essendone quasi soverchiato. Giovanni non aveva bisogno di alcuna spiegazione, sapeva già tutto e voleva solo che Lara si sentisse finalmente al sicuro, voleva che si sentisse pulita e integra nel suo essere donna.

Quando la ragazzina cominciò a recuperare piano piano i pezzi frantumati di sé, Giovanni affondò nella sua bocca, per infilarle dentro l'anima tutto l'amore che provava per lei. Poi, prese tra le sue mani forti la caviglia dolorante della ragazza, iniziando a massaggiarla con delicatezza e riempì di baci i suoi stinchi feriti. Quando notò sul nodo sensuale del suo ginocchio la ferita che colava sangue, si stracciò un pezzo di camicia, lo inzuppò nell'acqua corrente e legò la stoffa intorno al poplite.

Mentre lo guardava prendersi cura di lei, Lara iniziò a sentirsi amata in un modo tutto nuovo che curò insieme al suo corpo pure il suo cuore sanguinante. Giovanni afferrò il cestino, che era divelto sotto il salice, e raccolse le more selvatiche. Dopo aver riempito il contenitore di vimini sotto lo sguardo di Lara - che si sentiva colpevole come una ladra che aveva ottenuto un diamante senza pagarne il prezzo - Giovanni si mise accanto a lei, versando le more dentro il pozzo rosso della sua bocca, una dopo l'altra, dandole il tempo di assaporarle. Tradita dal sapore ricco di quei frutti succulenti, Lara si sentì annichilita dentro il buco nero della sua coscienza lurida, accasciò lo sguardo sulla terra erbosa e riuscì a raccogliere dal suolo solo una parola.

"Scusa."

Giovanni, che aveva ben intuito che quelle scuse erano rivolte a se stessa molto più che a lui, si avvicinò silenzioso alle sponde violentate del suo cuore.

"Non importa, Lara. L'unica cosa che m'interessa è che tu sia qui, vicino a me! Ti amo!"

Quelle parole si infiltrarono dentro le ossa di Lara e da lì si riversarono furiose nel fluido ferruginoso del sangue, inondando i tessuti degli organi d'una pace e d'una gioia da cui la ragazza fu stravolta e vivificata dentro la sua stessa carne. Succhiò ogni più liquida e sottile sensazione che in quel momento la invadeva, sfoderando l'anima dal suo guscio difensivo. Si sentiva come un parassita affamato d'amore, alla deriva dei suoi sogni, che le scintillavano di fronte come dardi infuocati. Piombò sulla carne del suo amante come un uragano sanguigno e si incastrò alla sua pelle, come a voler annullare le differenze e diventare in quel momento un solo nucleo di vita brulicante. E la terra era fredda e umida e i loro corpi caldi e scroscianti, e la cascata rombava forte, gettandosi a picco sull'acqua e fracassandone la superficie, e una cellula di vita sbocciava come una mora sulle rive di un rovo, accanto al fiume, addosso alla morte che divorava la vita per poi sputarla e darle nuovo vigore. Vita, morte e amore, mai tre parole sono state così intricate da confondere le loro membra lacerate l'una con l'altra, in un connubio inquietante sulle soglie del Senza Tempo.

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