Con il cucchiaio immerso nel piatto e io che ravano in cerca di qualche pezzo più solido, non è difficile cogliere tutto il mio disappunto. Non è tanto il sapore a disturbarmi, quanto piuttosto il colore, rosso vivo, che richiama lo sfondo della bandiera nazista, se non proprio il sangue di cui è intrisa. È impressionante per me, che oggi ho messo piede per la prima volta ad Auschwitz-Birkenau. Nessuno oltre me, nel mio tempo, avrà modo di constatare con i propri occhi cosa fosse quel luogo in attività, tant'è vero che una visita d'istruzione non avrebbe sortito lo stesso effetto su di me.
Dovrei sforzarmi però, perché questo piatto è un lusso che tanti non si possono permettere; anche la nonna sosteneva che fosse "peccato" avanzare il cibo, ma confido che mi perdonerebbe, se sapesse che è il mio intero apparato digerente a rifiutare questa zuppa.
«Sei così pallida...» Mi fa notare Friederick, seguendo il movimento tremolante della mia mano. Gli altri, a contrario mio, mangiano tranquilli, scambiandosi battute goliardiche tra un sorso e l'altro. Dopo aver dibattuto sull'efficienza e sulla capienza dei Crematori, argomenti che farebbero ritorcere lo stomaco a chiunque, hanno cambiato discorso; un salto inquietante dal piano di sterminio alla quotidianità dei singoli, divisa tra lavoro, famiglia e sfizi.
Con la coda dell'occhio sono tornata al punto in cui prima si trovava Ariel e dove si è creato uno spazio fastidioso, tra un prigioniero e l'altro. Si avverte subito la sua mancanza.
«Vedo che non hai appetito. I nostri piatti non riscontrano il tuo gusto, Spaghetti-Fresserin?» Un soldato dai piccoli occhi color carbone mi schernisce, provocando una risata generale. Quasi nessuno padroneggia l'italiano, ma non dev'essere stato difficile per loro capire il contesto. Fresserin?* Non solo il pregiudizio, anche la beffa! Come se si stesse rivolgendo a un cane, piuttosto che a una ragazza.
«Genug, Sauer. Lass das Kind in Ruhe.[1]» Dopo il rimprovero del colonnello, lui non infierisce oltre, contenendosi.
Non ho bisogno della sua protezione, tantomeno sono stata io a richiederla. Quando la guerra sarà finita, non voglio che il mio nome venga accostato al suo: non mi farò insultare e sputare addosso soltanto perché un nazista mi ha voluta esporre a mo' di trofeo.
Ma che dico... non devo darmi per vinta! Sono viva, posso tornare. C'è ancora speranza.
«So difendermi benissimo da sola.» Enfatizzo, con una nota di disappunto.
«Se così affermi...» Prende a tamburellare le dita sul tavolo, indeciso sul da farsi. «Che ne dici, Sauer? Dopo mesi di magra, Miller ci ha portato una femmina, una femmina vera.» Il soldato, più discreto del comandante, replica in tedesco, convinto di potervi celare le sue intenzioni.
«Ich kann es nicht erwarten, meine Hände an diesem schönen Körperchen zu haben.[2]» Sghignazza a sua volta quello, addentandosi la lingua; per risultare seducente, mi dico, anche se proprio questo gesto me lo fa sembrare ancora più viscido.
«Prenditela allora» il colonnello lo invita a "servirsi", a buffet, offrendomi come un otre di vino. Stira il busto all'indietro, non incrocia le gambe sul tavolo per mantenere la facciata, ma è soddisfatto della malefatta ordita a mio discapito.
L'uomo bruno passa in secondo piano in questa circostanza; i miei occhi sono incatenati alle radici del male, poiché mi aspetto un intervento da parte sua, presto o tardi.
Il solo a schiodarsi, però, è proprio Friederick, che mi si para coraggiosamente davanti, facendo del suo corpo uno scudo protettivo.
Lo avrebbe fatto avvicinare... Che altro gli avrebbe permesso di fare, qui, davanti a tutti?!
![](https://img.wattpad.com/cover/102769660-288-k816780.jpg)
STAI LEGGENDO
Unsere Schatten - Le nostre ombre
Исторические романы[EX CANONE INVERSO - BEHIND ENEMY LINES] Estate, 1942. Alle porte di Auschwitz-Birkenau una ragazzina corre a perdifiato, cercando di sfuggire al suo destino. Cade dal suo scranno dorato; non sa nulla del mondo, tanto più dei bui anni quaranta, un...