«Riuscirai a rimediare, vedrai.» Ho parlato per timore che in questo stato possa far del male a me o a qualcun altro, visti i trascorsi, ma, francamente, non so se il mio tono rassicurante possa aver riscosso successo. Conoscendolo...
Schneider mi scocca un'occhiata perplessa, dopodiché rilassa le spalle e si sbilancia in una battuta di spirito, prima di mettere in moto e ripartire.
È stato un sollievo per lui dilatare i polmoni e respirare aria pulita. So che gli ha creato disagio, una sensazione come di soffocamento, che ha indirizzato il suo pensiero agli innocenti nelle camere a gas, fosse anche solo per un istante.
Sarebbe stato impossibile non trovare una correlazione tra le due situazioni.
"Impossibile" ripeto a denti stretti, sobbalzando per via della strada accidentata; un incubo, per una vettura che non è stata munita di cinture di sicurezza.
Ma come diavolo è possibile che non ci avessero ancora pensato? Ho rischiato di morire almeno tre volte!
All'ennesimo dosso, mi appiattisco contro il sedile, come lui, cercando di non badarci, di concentrarmi solo sulla casa e sulla cucina dove spero - e prego - di poter trovare Ariel.
Spalanco lo sportello prima ancora che riesca a spegnere il motore, e corro subito all'interno, passando dalla porta di servizio da cui sta rientrando una delle domestiche.
La discrezione? Ormai deve aver capito anche il colonnello quanto sia affezionata a lui. È solo questione di tempo: se vorrà farmela pagare, lo farà, indipendentemente dall'attrattiva che esercito sul suo enorme ego, quasi come fossi una metà complementare che, stranamente, gli è ostile.
La porta di servizio, divelta con una violenza attribuibile a Schneider stesso, allerta il "personale": una schiera di facce mai viste, di lineamenti segnati dalle pieghe e incarnati incolore, che non rendono affatto dubbia la loro provenienza.
Ma dov'è Ariel? E se lo avessero rispedito al campo? Se fosse rimasto ucciso?
Chiedo a tutti del ragazzo ebreo, ma nessuno di loro sa darmi risposta. Vedo Zlata, la ragazza sinta che non parla mai, e la imploro di dirmi dove si trovi: «sai dov'è Ariel? Wo ist der Koch?! Ariel?!» Glielo chiedo con gli occhi umettati di lacrime, ma lei non risponde; mi guarda e passa oltre, continuando a camminare con la brocca d'acqua tra le mani, fino al tavolo. La poggia e mi transita di nuovo accanto, sgusciando fuori dalla cucina senza più alzare gli occhi dal pavimento. Allora, ancora troppo bambina, piango contundendo le labbra, pestando i piedi per la frustrazione e per il dolore nascente a cui non ero abituata.
«Perché piangete, signorina? Ve lo avevo promesso, ricordate? Che non avrei lasciato questo mondo tanto facilmente! Temo che mi avrete tra le scatole ancora per un po'...» Lui è lì in piedi, più magro di come l'ho lasciato, la ferita al braccio rimarginata e lo sguardo celeste ancora malinconico, ma lucido di commozione.
«Oddio Ariel, sei proprio tu!» Riverso in uno stato tremendo, eppure mi precipito da lui non appena lo vedo apparire. Senza pensare a nulla, nemmeno agli occhi indiscreti degli inservienti, gli fascio la vita sottile con le braccia e mi avvicino al suo petto, cingendolo in una sorta di abbraccio. «Ho avuto così paura! Credevo fossi...» Non riesco a terminare la frase, strozzata dal magone.
Lui non si muove, perché non può rischiare di farsi beccare dal colonnello o dalla governante, però capisco che anche lui vorrebbe ricambiare l'abbraccio e questo mi rende felice, follemente felice.
«Non preoccupatevi per me, non dovete...» Vorrei tanto che non ci fosse nessun altro in questa stanza, sicché lui riesca a trattarmi come una pari senza doverne temere le conseguenze.
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Unsere Schatten - Le nostre ombre
Ficción histórica[EX CANONE INVERSO - BEHIND ENEMY LINES] Estate, 1942. Alle porte di Auschwitz-Birkenau una ragazzina corre a perdifiato, cercando di sfuggire al suo destino. Cade dal suo scranno dorato; non sa nulla del mondo, tanto più dei bui anni quaranta, un...