27. Flashback

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Tyler's pov


8 mesi prima

Diedi un'occhiata intorno a me, cercando di calmarmi e farmi passare il mal di testa che si stava diffondendo dalle mie tempie. 

Mi sistemai meglio sulla sedia nell'area "accoglienza" dell'ufficio. Mi sentito tutto tranne che accolto. 

Ripensai a solo qualche mese prima, e non capii come mi fossi ritrovato lì. La sera a Boulder era così vivida nella mia mente. Quella notte era così vivida. Ele era così vivida. Ma ciò che era venuto dopo, avrei preferito che non lo fosse. 

Non avevo la più pallida idea di cosa dovesse dirmi. Volevo solo andarmene da quella fottuta città. Volare a New York e cercarla. Assicurarmi che stesse bene.

Risi, scuotendo la testa. No che non stava bene. Ed era solo per colpa mia.

Mi massaggiai le tempie con le dita, cercando di alleviare il mal di testa, quando sentii chiamare il mio nome. 

"E' pronto per riceverla", mi informò la donna alla reception.

Annuii, sforzandomi di sorriderle. Mi alzai e camminai lentamente verso la porta, sperando di essere avvisato di un problema improvviso per non andare. 

Invece mi trovai a fissare la scritta "Malcom Evans" chiara e tonda davanti ai miei occhi. Sospirai, evitando di bussare appositamente. 

Mi chiusi la porta alle spalle e mi voltai, scrutando di nuovo il grande abitacolo in cui mi ritrovai. Le pareti interamente grigie stonavano con le mattonelle nere del pavimento. 

La scrivania era posizionata nel fondo della stanza, dietro la quale la parete era completamente rivestita di scaffali. Mi presi del tempo per ammirare le foto ed i quadri appesi sulle pareti che mi circondavano. 

Incontri di lavoro. Colleghi. Promozioni. Contratti. Riconoscimenti. Ancora colleghi. Oh, ed una segretaria, a quanto pare. 

Cercai di non ridere, abbassando la testa. Mi chiesi quante volte gli avessero domandato perchè non tenesse foto della sua famiglia in vista. 

Ah, giusto. La risposta che avrebbero ottenuto sarebbe probabilmente stata: "Non ne ho una". 

"Sette anni di lavoro per ottenere quello", sentii dire alle mie spalle. Mi girai di scatto, Malcom era dietro di me ed indicava uno dei quadri sul muro.  

Si mosse verso la mia direzione, le mani nelle tasche, l'espressione orgogliosa e gli occhi gelidi. 

Mi scansai, spostando lo sguardo. Lo sentii avanzare verso la sua scrivania. "Quello è fresco. Dieci mesi di spedizioni in Messico per ottenerlo", si vantò. 

Non dissi niente, rimanendo dov'ero. Si sedette alla sua scrivania, incrociando le mani. Quando constatò che non mi sarei mosso, mi indicò la sedia davanti a sé. 

Lottai con tutto me stesso per rimanere impassibile. Non volevo dargli la soddisfazione di sapere che lo temevo. 

Ma non riuscii ad impedire ai miei piedi di muoversi e di fare quello che diceva. Sospettavo che in me ci fossero ancora i resti del bambino che aveva un disperato bisogno dell'amore di suo padre. Forse non se n'era mai andato. 

Posai i palmi sulle ginocchia, cercando di scrollarmi di dosso il nervosismo. Evitai il contatto visivo per tutto il tempo che parlò. 

"Ti chiederai perchè ti ho voluto incontrare", cominciò, scrutandomi da testa a piedi. 

Non mi toccare 3 Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora