24- Appena sbocciato

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18 aprile

L'autobus era così affollato che mancava il respiro. I passeggeri stavano ammassati gli uni contro gli altri, la pelle e i vestiti a contatto e le voci mescolate in un unico aggrovigliato rumore.

"Odio prendere i mezzi a quest'ora" mormorò Denisa, sbuffando. "Non si respira". Una nuvoletta di crespo le si era formata sulla nuca, rovinando la piega perfetta a cui dedicava mezz'ora del suo tempo ogni mattina.

Alessia fece spallucce. "Tranquilla, tra poco siamo arrivate, mancano due fermate".

Mentre il bus procedeva a singhiozzi e Torino si srotolava fuori dai finestrini come la pellicola di un film, Emilia aveva la sensazione di essere avvolta da una campana di vetro. I discorsi delle amiche le arrivavano attutiti e spezzettati; aveva colto alcuni sprazzi di conversazione, Alessia che si lamentava di Giulio e Jessica, due loro compagni di classe, Rebecca che raccontava gli ultimi aggiornamenti su Alberto Parodi, con cui si sentiva ininterrottamente da due giorni, e Denisa che se la rideva e diceva: "Ormai lui è sotto un treno, te lo dico", ma non riusciva a inserirsi in nessuna di queste.

Tutto ciò che desiderava era smaterializzarsi, sparire senza dare alcuna giustificazione, e chiudersi in camera con le cuffie nelle orecchie e la musica sparata a tutto volume.

Non c'era nulla che potesse fare per allontanare dalla sua mente i ricordi del pomeriggio precedente. Federico, con la sua parlantina inarrestabile e la sua voglia di conoscerla. Federico, con tutti quei discorsi filosofici, il suo respiro sul viso e quel bacio mancato di cui poteva solo immaginare il sapore. Federico, il fidanzato della sua migliore amica, che ora stava lì di fronte a lei, ignara di tutto e sorridente. Non era pronta a stare in sua compagnia anche a pranzo, la sola idea le dava il voltastomaco.

"Emilia?".

La voce di Alessia la ridestò dai suoi pensieri.

"Sì?".

"Dobbiamo scendere".

Le porte si aprirono a fatica, costringendo le persone a bordo ad ammassarsi ancora di più, e le ragazze sgusciarono fuori una dietro l'altra, prendendo una grossa boccata d'aria una volta uscite.

"Ah, finalmente" esclamò Alessia, trionfale. "Spero che sia già pronto, perché ho una fame da lupi".

Fece strada alle sue amiche fino al palazzo in cui viveva, un condominio color sabbia degli anni '60 che si affacciava su una piazzetta dove gli ambulanti vendevano cibo da strada, diffondendo nell'aria un delizioso odore di fritto.

"Ma che cos'è questo casino?" esclamò Denisa, stizzita, quando ebbero varcato la soglia del palazzo.

Nell'atrio asettico, con i pavimenti lucidi di un giallo smorto e l'odore forte di candeggina, rimbombava la musica proveniente da un appartamento, una canzone Reggaeton vecchia di qualche anno e degna di un tamarro al mare con il rosario al collo e gli shorts col risvoltino.

"Oddio, scusatemi" rispose Alessia, scuotendo il capo rassegnata. "È sicuramente mia nonna".

Denisa sbiancò e diede un leggero colpo di tosse, cercando di celare malamente l'imbarazzo.

"Beh, però mette un po' di allegria ai vicini" mormorò, sforzandosi di sembrare ignara dopo la lamentela espressa poco prima. "Poi la canzone è carin...".

"Guarda, Den, non c'è bisogno". Sul volto di Alessia si dipinse un sorriso comprensivo. "È già la terza volta in un anno che l'amministratore le fa il cazziatone perché mette la musica a un volume troppo alto, ma non gliene frega niente. Continua a giustificarsi dicendo che è anziana e che non ci sente bene".

Felicità PuttanaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora