II

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È buio. La giornata è ormai giunta alla fine.

Alla fine l'ho trovata, quell'idiota se ne stava a dormine nel bel mezzo di un giardino pubblico, ma c'era troppa gente affinché potessi rapirla senza essere notata. L'ho pedinata per tutto il giorno e finalmente mi ha vista, appoggiata al pilastro del portico di fronte alla cattedrale. Sa che sono venuta a prenderla e che deve cominciare a dire le sue ultime preghiere. Nei suoi occhi ho letto la paura che le ha velato lo sguardo al sol accorgersi della mia presenza. È rimasta pietrificata, neanche fossi Medusa.

Mi sento un po' come lei in effetti: condannata per il suo tragico amore per un dio bello e irraggiungibile, invidiata da una dea dall'umore mutevole e vendicativa, che decide di punirla mutando i suoi capelli in serpenti e rendendo i suoi occhi capaci di pietrificare chiunque osi incrociarne lo sguardo. La mia grazia ed ingenuità di fanciulla mi hanno abbandonata, adesso sono un felino, una pantera in agguato, elegante e silenziosa.

Quello stupido uomo si é messo in mezzo, impedendomi di rapirla per riportarla in biblioteca da mio padre, al cospetto della Corte. Peggio per lui, non sa quello che lo attende. Ha uno sguardo così buono e innocente che quasi mi spiace per lui, ma questa mia insensata e folle compassione non intralcerà in nessun modo il mio compito. Non ho motivo di essere gentile, non è niente per me, e poi non ne sono più capace.

Vago per le strade avvolte dalle malinconiche ombre gettate dai lampioni sulla pavimentazione piastrellata delle vie. Cammino senza meta per molte ore. I miei piedi mi portano alla diga foranea, che percorro fino in fondo. Mi poggio al parapetto e guardo verso l'alto. Nonostante l'eccessiva illuminazione che giunge dalla città alla mie spalle, riesco a vedere qualche stella. Qui, circondata dalle acque del lago, mi sento lontana dal mondo, dalla sofferenza. Chiudo gli occhi e respiro a fondo.

Le stelle sono sempre state una fonte di consolazione per me, quando mi sentivo irrimediabilmente sola. Quando ero piccola non capivo perché io fossi l'unica a non avere un vero amico. Gli altri giocavano con me, ma sembrava che a volte lo facessero controvoglia, quasi fossero stati obbligati. Con il senno di poi immagino fosse proprio così. Nessuno avrebbe mai osato isolare la figlia del re, altrimenti sarebbero stati puniti e mio padre non è di certo un uomo incline al perdono. Io non ero così stupida da non accorgermi che il loro comportamento era strano, ma ero ingenua e mi convincevo che era soltanto una mia impressione. Perché mai non avrebbero dovuto voler giocare con me?

Un giorno però erano stati davvero crudeli. Io ero solo una bambina di otto anni, non avevo colpe, ma mio padre sì e tutte le sue ricadevano su di me come se le avessi commesse anch'io. Non è un sovrano ben visto, tutti ne hanno paura e non osano ribellarsi, ma dentro di loro lo odiano e l'unica cosa che potevano fare allora era vendicarsi su di me. Anche adesso è così, non è cambiato nulla.

Io tacevo sempre, mai avrei raccontato dei dispetti che mi facevano, pensavo che altrimenti mi avrebbero odiato ancora di più. Credevo fosse colpa mia se non riuscivo ad avere amici. Quando però mi trattavano male io ne rimanevo ferita. Mi rifugiavo nel mio nascondiglio preferito, dove nessuno poteva seguirmi: uno degli alberi vicino alla biblioteca ha dei rami grandi e possenti, in cui si riesce a stare comodamente seduti, soprattutto se si è abbastanza piccoli. Rimanere accoccolata lì mi faceva sentire circondata da affettuose braccia materne, di una madre che non ho mai avuto. Soltanto con il mio adorato albero parlavo di tutto quello che mi angustiava e mi rattristava, di ciò che mi rendeva felice, del mio primo amore. Era bravo ad ascoltare e io non sapevo a chi altro rivolgermi. 

Spesso andavo nel mio piccolo nido di notte, guardavo il cielo incorniciato dalle fronde in cerca delle stelle e le contavo. Pensavo fossero le mie fate madrine, che da lassù mi osservassero e proteggessero dal male. Erano bellissime. Credevo che la loro luce derivasse dal riflesso dei raggi di sole sulle ali di rugiada delle fate, che volavano nel cielo notturno solo quando tutti erano andati a dormire nei loro letti. Che assurda fantasia! Però erano tutto quello che avevo, l'unica cosa che sentissi davvero mia, che mi voleva bene.

Mio padre non mi ha scelto, semplicemente riteneva che fossi abbastanza piccola per potermi inculcare qualsiasi idea in testa. Non voleva una figlia da amare, voleva un'erede a cui lasciare il trono che la pensasse esattamente come lui. Non aveva affatto calcolato che avrei potuto avere una personalità, che avrei potuto ribellarmi al suo volere.

Riapro gli occhi sul presente, sulla distesa di acqua lacustre. Anche se non lo ammetterei mai ad alta voce, forse è riuscito nel suo intento e io sono proprio come lui: un mostro.

«Il re vuole parlarti. Subito» mi dice il Verme Numero Uno non appena varco la soglia di casa. Se ne va ancor prima che io possa rispondere alcunché.

"Grazie della considerazione, come sempre."

Tutti i sottoposti di mio padre per me sono i Vermi, non mi importa che carica rivestano, tanto sono tutti uguali: fedeli al limite della comprensione, fanno qualsiasi cosa venga loro ordinata. C'è tutta una scala gerarchica con una serie di titoli inutili e ridicoli. Per me quello che sta all'apice è il Numero Uno seguito dal Due, il Tre e così via, non mi interessa sapere i loro nomi. Mi dirigo riluttante verso lo studio del caro paparino. Busso alla porta preparandomi alla ramanzina che mi aspetta per essere ritornata a mani vuote.

«Entra.»

«Buonasera, padre, mi cercavi?»

Non mi risponde. Sta guardando fuori dalla finestra, fermo immobile, e mi volta le spalle. La sua enorme figura impedisce alla luce dei lampioni di entrare nella stanza per rischiararla. I miei occhi ci mettono un po' ad adattarsi all'oscurità dello studio. Rimango in piedi nel centro della stanza per un tempo lunghissimo. Lasciarmi pesare il suo silenzio sulle spalle è la prima fase della sua punizione, poi si gira verso di me e mi viene incontro. Quando mi è di fronte mi tira uno schiaffo sulla guancia. Nell'aria sospesa risuona lo schiocco secco della sua mano contro la pelle del mio volto. Sento la faccia bruciare nel punto in cui mi ha colpito, ma non smetto di tenere la testa alta, nel modo più dignitoso possibile. Vorrei ribellarmi, ma so che sarebbe inutile, mi punirebbe soltanto di più, potrebbe mandarmi via e io non avrei nessun altro posto in cui andare. Questo è il trattamento che mi riserva da buon genitore qual è.

«Mi hai già deluso una volta, non voglio che la cosa si ripeta. Devo forse assegnare questo compito a qualcun altro?»

«No, ce la posso fare tranquillamente.»

«Allora lei dov'è?» mi sbraita dritto in faccia.

Ogni volta che mi vede il suo sguardo si rabbuia, come se gli rovinassi la giornata: deve proprio odiarmi. Come tutti del resto. L'unico che dimostra un briciolo di affetto nei miei confronti è Prince, mio fratello, ovvero il nuovo erede, nonché il mio sostituto. Ormai però ho imparato la lezione: l'amore è soltanto un'illusione, non mi salverà mai dalla mia malinconica vita.

«Solo una cosa ti avevo detto di fare e tu non ne sei stata in grado, perché mai dovrei fidarmi ancora?»

Comincia a camminare avanti e indietro per la stanza. Si ferma di colpo e si volta di nuovo verso di me. «Lei ci serve adesso, lo capisci questo?»

«Sì. E se lasciassimo fare a lei il lavoro sporco?»

«Spiegati meglio.»

«Se la spingessimo a fare quello che vogliamo che faccia ma senza minacciarla, anzi facendole credere che stiamo cercando di impedirle di agire?»

Mi scruta pensieroso, valutando se la mia sia una buona idea.

«Le potremmo far credere che sia il volere del fratello.»

«Vorresti farle avere la chiave che abbiamo sequestrato a quel ladruncolo? No, è troppo rischioso!»

«Una spia mi ha detto di aver sentito dire al fratello che lui voleva fargliela avere. Le ha lasciato un messaggio tramite quell'idiota di Hunger Games o Zac, come lo chiama lei. Potremmo permettergli di andare da lei, a lui crederà senza dubbio.»

L'espressione che leggo sul suo volto mi dice che l'ho convinto, ma che è restio a darmi ragione.

«Funzionerà» gli assicuro. «Lascia che me ne occupi io.»

«E sia! Ma è la tua ultima opportunità. E adesso vattene.»

«Ai suoi ordini, Vostra Altezza.»

Faccio un inchino e lascio la stanza. Quanto vorrei ucciderlo. Sono stanca di essere maltrattata, picchiata, umiliata, costretta a piegare il mio orgoglio, odiata. Voglio soltanto che tutto finisca presto.

Fuori da queste pagineDove le storie prendono vita. Scoprilo ora