28 ~ SOFIA (prima parte)

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Quando mi sveglio la casa è profondamente silenziosa. Mi alzo per potermi stiracchiare e sento una fitta al torace. Quando mi passeranno tutti questi dolori alle membra contuse? Poi mi stropiccio gli occhi, ancora impastati di sonno, per convincerli a stare aperti. Dopodiché abbasso lo sguardo e vedo che è stato lasciato qualcosa sul tavolino. Mi chino e prendo tra le mani un mazzo di chiavi e un biglietto.

"Sono uscito per andare al lavoro. Queste sono le chiavi di casa mia, così puoi uscire liberamente. Bada bene: io le affido a te e confido nel fatto che le terrai lontane dalle manacce luride del tuo amico faccia da cesso senza sciacquone. Ed"

Era di buon umore già di prima mattina come c'era da immaginare dopo la discussione che ha avuto ieri sera con i suoi due amici. Speravo proprio di riuscirlo a vedere prima che andasse in libreria per capire come sta, per dirgli qualche parola di conforto. Come se ne fossi capace, di sicuro avrei balbettato qualcosa di incoerente o stupido per poi optare per un dignitoso silenzio. Io non so affatto consolare le persone perché di solito sono io quella da rassicurare per farmi smettere di piagnucolare. Ed non ha bisogno di me, è grande e forte e le sciocche parole di una bambina non servirebbero a niente.

Mi lascio ricadere sul divano un po' abbattuta e mi chiedo che cosa questa mattina abbia in serbo per me. Mi prendo la testa tra le mani cercando di allontanare Ed dai miei pensieri e di focalizzarmi sul mio obbiettivo per questo giorno: sapere esattamente dove trovare quella maledetta spada. Quando sono sicura di essere ben concentrata mi alzo e, dopo averlo piegato, infilo il biglietto nella tasca dei miei nuovi pantaloni. Mi fa ancora male ovunque, anche punti che mai avrei immaginato potessero far male. È forse un livido quella macchia blu-viola gigantesca che ho sul mignolo? Sospiro sconsolata.

Vado in cerca di Zac e lo trovo appollaiato sul davanzale di una finestra a guardare chissà cosa al di là del vetro. Pare quasi triste mentre scruta assorto davanti a sé e non indossa la sua armatura da duro. È in quei rari momenti in cui lo colgo di sorpresa che capisco che anche lui ha le sue debolezze.

«Buongiorno» gli dico cingendogli la vita da dietro in un abbraccio.

«Buongiorno, Scricciolo» mi risponde dandomi un buffetto su una mano.

«Sei pronto?»

«Sono nato pronto.»

Percepisco che sta sorridendo anche se non riesco a vederlo in volto. Quando Ed non è nei paraggi è sempre di buon umore. Chissà che cosa gli frulla per la testa da fargli odiare così tanto quel povero ragazzo.

«Ah, bei vestiti, comunque» dice con un tono che non riesco a interpretare.

Dopo che siamo usciti, chiudo la porta e poi metto in tasca anche le chiavi. Le sento premere contro la coscia e la cosa mi rassicura perché mi dà la certezza che non le perderò, o almeno la speranza, dato che sono strizzate tra due strati di tessuto. Io e Zac camminiamo spalla contro spalla, cioè camminiamo spalla contro testa, considerato che lui è molto più alto di me. Passando per le vie del centro, giungiamo alla chiesa di San Fedele. Com'è possibile che Zac sappia pure orientarsi per la città? Io non ero nemmeno a conoscenza dell'esistenza di questa chiesa e lui sa addirittura dove si trova?

Ci blocchiamo davanti al portone. Sospiro: spero con tutto il mio cuore di ottenere qualcosa andando dagli Scrivani e non riesco a trovare il coraggio di varcare quella porta che mi potrebbe portare più vicino alla soluzione, ma anche a nulla, se non a una grande delusione.

«Andiamo» mi dice Zac stringendomi una mano per confortarmi.

Entriamo. Dentro è buio e non riesco a vedere niente se non vagamente i contorni delle colonne. Quando i miei occhi si sono abituati alla scarsa illuminazione, Zac è già andato avanti, così seguo il rumore dei suoi passi per raggiungerlo. La chiesa è deserta e ogni minimo suono che produciamo rimbomba tra le pareti di pietra. Sento un cigolio e mi salgono i brividi lungo la schiena: questo posto è davvero inquietante così buio e vuoto. Trovo Zac fermo davanti a una vetrinetta dentro alla quale si può vedere la rappresentazione plastica delle fiamme dell'inferno. Fissa il pavimento come in cerca di qualcosa e io lo lascio fare, dato che sembra così sicuro di quello che fa. Intanto guardo meglio all'interno della vetrina: le fiamme stanno ingoiando delle figurine dalle pose contorte, alcune sono intrappolate nelle sue lingue, altre tentano di fuggire senza possibilità di farcela. Tutte quelle persone hanno delle facce disperate e sofferenti di chi è sottoposto alla più crudele tortura. Un altro brivido mi sale lungo la schiena. Ma in che razza di posto sono finita?

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