Capitolo 3

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Hinata

'Il ricordo vivido di quello che siamo stati, mi fa rabbrividire.'

"Asahi, schiacci troppo forte!" urlò turbato il coach.
Quel giorno eravamo spietati, nei primi venti minuti di un'amichevole eravamo presi dalla foga di vincere, ma come gli stupidi avevamo esaurito tutte le nostre energie in men che non si dica.
"Professore, chiami un time out per favore" disse il coach abbastanza arrabbiato.
"C-certo" rispose quest'ultimo, intimorito.
"Ragazzi, mi spiegate cosa avete? Capisco che tra meno di tre settimane ci sono le qualifiche del torneo ma non vi siete mai impegnati così tanto in un amichevole, non fa bene consumare in questo modo le energie. Certo, l'obiettivo è vincere ed esercitarsi ulteriormente, ma l'importante è partecipare. Datevi una regolata e non sforzatevi troppo."
All'improvviso sentii una serie di fischi assordanti, talmente dolorosi per le mie orecchie che dovetti accasciarmi a terra, erano loro. Le allucinazioni.
Mi capitava di averle nei momenti in cui ero stressato o usavo energie che il mio corpo non poteva permettersi di consumare perché ero debole fisicamente. Ricordo benissimo che in quel momento vidi una farfalla bianca posarsi sul mio ginocchio, sentivo le orecchie quasi sanguinare ma cercai di contenermi per non urlare.
"Non toccarmi!" Urlai bloccando Daichi che impanicato come tutti cercò di aiutarmi.
'Chiudi gli occhi, chiudili. Chiudi gli occhi, va tutto bene.'  ripetevo tra me e me. Quando li riaprii di nuovo, un vento gelido proveniente dalla porta mi colpì la schiena e notai che i suoi occhi erano fissi su di me.
La testa mi scoppiava e non riuscivo a capire perché quella volta era stata una farfalla. Solitamente mi capitava di rivivere ricordi della mia infanzia o cose a cui davo un significato importante, ma alla farfalla non sapevo proprio cosa attribuire.
"Coach sto ben-" Non mi diede il tempo di concludere la frase che mi ritrovai fuori dalla palestra.
"Non se ne parla, sei troppo stressato, va a casa e riposati, se ti senti bene torna domani altrimenti ci vediamo venerdì" la compassione dura del coach mi faceva paura, se fosse stato per me avrei dormito pure su gli spalti, tutto pur di stare in campo, ma dovevo comunque ubbidirlo.

***
"38.7" Perfetto. Mancava solo la febbre.
"Il tuo corpo non regge i tuoi sforzi!" sbraitò il coach quando lo chiamai per avvertirlo.
Lo sapevo benissimo, ma non mi sarei mai arreso.

***
"Shoyo, ci sono i tuoi amici" gridò mia madre dal pian terreno, i miei che?
"Nishinoya, Tanaka! Che ci fate qui?" chiesi un po' sorpreso. Non riuscivo nemmeno ad alzarmi, quindi mi limitai a sorridere.
"Caspita sei messo male, sei pallidissimo" disse Nishinoya.
"Facciamo a turno! Ora siamo venuti noi due, più tardi verranno Suga e Daichi, non vogliamo lasciarti solo perché sappiamo come ti senti quando non puoi giocare..." 
Cercai di guardarlo negli occhi, per vedere se lo sapeva davvero ma mi bastarono i suoi gesti per farmi capire che comprendeva davvero ciò che provavo quando non potevo giocare.
Potevo essere rappresentato come un leone in gabbia, privato della sua felicità.
Ogni volta che mi proibivano o non potevo giocare, mi sentivo letteralmente male, una rabbia e una frustrazione incontrollata cresceva dentro di me fino a farmi ribollire lo stomaco. Cercavo di stare in campo il più possibile, anche solo come raccattapalle se fosse stato necessario.
Perché io vivevo per quel dannatissimo sport. La pallavolo era come ossigeno per me e mai niente e nessuno mi faceva quell'effetto, o almeno, non ne ero ancora a conoscenza.
Dopo aver salutato Tanaka e Nishinoya, circa un'ora più tardi il campanello suonò di nuovo, ma al posto di Suga, c'era lui. Non chiesi la motivazione.
"C-ciao" quasi mi strozzai con la saliva vedendolo, dopo aver fatto quei pensieri su di lui, guardarlo mi riusciva troppo difficile.
"Come stai?" chiese Daichi, la sua tranquillità e comprensione quasi mi mettevano ansia.
"La febbre non è ancora scesa" mi limitai a dire questo, anche perché mi sentivo in soggezione con il suo sguardo puntato addosso; e non osava aprire bocca.
"Ti abbiamo portato il ramen" per poco non gridai dalla felicità. Era il mio piatto preferito in assoluto e l'avrei mangiato fino allo sfinimento, non mi sarei mai stancato anche se mi sarei sentito male dopo. Questo però, è un altro aspetto della mia vita, cercherò di evitarlo in tutti i modi, anche se so già che non sarà possibile.
Daichi scese in cucina per riscaldare la cena, avevamo deciso di mangiare insieme, il problema era che mi sentivo a disagio specialmente nel momento in cui eravamo rimasti soli, e non faceva altro che scrutarmi con il suo sguardo omicida, sembrava quasi arrabbiato con me.
"Da quanto tempo hai le allucinazioni?" la sua domanda mi fece sobbalzare all'istante, non pensavo parlasse dopo tutto quel silenzio a parer mio, abbastanza imbarazzante.
"Da quando sono piccolo."
Più precisamente, dall'abbandono di mio padre, ma non mi sarei mai esposto così tanto, non con lui.
Non volendo, i miei occhi diventarono lucidi al ricordo di un padre affettuoso che mi insegnava come giocare a pallavolo nel giardino di casa che un tempo era nostra. Ma come anche il rapporto con il cibo, anche quello di mio padre era una cosa che volevo tenere segreta a tutti i costi.
"Stai mentendo, ma se non me lo vuoi dire non ti costringo, non mi interessa granché."
"Non mi interessa, non mi frega niente, non mi importa" erano queste le frasi che mi ripeteva ogni giorno, volevo fargli capire che ne ero consapevole, ma a volte dovevo fregarmene anch'io.
"Puoi smetterla di essere così?" chiesi quasi infastidito.
"Cosa?"
"Glaciale. Sei glaciale. Cioè siamo compagni di squadra, abbiamo qualche corso in comune eppure sei uno sconosciuto, mi odi per caso?"
L'espressione corrucciata fu la conferma definitiva di un "crack" che avvertii sotto forma di fitta al petto. La sua non risposta fu tale per me, pensavo che mi odiasse e ne ebbi la conferma; avevo sempre visto il nostro rapporto come se fosse una competizione sana tra amici. Ma evidentemente, non lo eravamo, e non riuscivo a capire perché ogni volta che si parlava di lui, soffrivo senza accorgermene.
Perché poi ci pensavo dopo, alla fine della giornata arrivava il mio tipico momento di riflessione, dove venivo inghiottito dai miei stessi pensieri, più negavo che Kageyama mi attraesse e più stavo male con me stesso, però dall'altro lato sapevo che era un'assurdità provare qualcosa per un ragazzo, per lui.
Non ero assolutamente omofobo, ma la remota consapevolezza di essere gay mi faceva gelare il sangue, non ero pronto ad affrontare una società altamente razzista, maschilista, omofoba e misogina.
Non ero abbastanza forte da affrontare persone con la mente chiusa, che limitavano e impedivano la felicità degli altri, non ero pronto a niente, quindi era più facile fingere che non lo fossi.
Probabilmente non sarei mai stato pronto. Per non contare il fatto che mio padre fosse puramente omofobo. Ricordo impressa una scena nella mia mente: Stavo camminando con mio padre e la mia sorellina, ci fermammo in un parco giochi a prendere un gelato quando lui mi indicò una coppia di ragazzi che si stavano felicemente baciando nonostante gli insulti e le richieste di andare via dei passanti. Mi disse:
"Guarda quelle persone, non diventare mai così perché mi faresti schifo."
Per i miei 11 anni fu scioccante assistere a quella scena, non ero sorpreso dai ragazzi che si baciavano, ma da mio padre. Quella fu l'unica volta in cui stetti zitto, poiché io amavo parlare e sfogarmi con lui, però in quel momento le parole non uscivano dalla mia bocca e non lottavano nemmeno per farlo, non avevo nulla da dire ma soprattutto non sapevo cosa dire.
Con il tempo imparai che per sopravvivere in questo mondo, bisogna fare cose che non vogliamo, o indossare maschere. È indispensabile, ma persone come me, persone che non rivelano la vera identità e riescono bene o male a fingere, sono quelle che soffrono di più. Stima per quelli che non avevano paura di esporsi, ma io ero così e la paura o il rifiuto di me stesso prima o poi mi avrebbe ucciso.
Quel silenzio tramutato in puro odio da parte mia venne interrotto da Daichi che ci disse di scendere per cenare. Kageyama non era mai stato così silenzioso e il suo comportamento iniziava ad infastidirmi e preoccuparmi. 'Perché fa così ora?'
Non perdeva tempo nel ricordarmi che tutto ciò che sapevo fare era solo saltare ma quando non mi sgridava o rimproverava, c'era obbligatoriamente qualcosa sotto.
Però, Kageyama quella sera mi sorprese, e non poco.
Dopo averli salutati tornai stremato a letto, la testa mi scoppiava. Il ramen era delizioso ma lo stomaco era in fiamme, di lì a poco avrei di sicuro vomitato, e così fu.

***
"Idiota! Apri!" stetti quasi per avere un infarto quando vidi due mani possenti appoggiate al cornicione della mia finestra, intente nell'aprirla. Non avevo il coraggio di guardare e stavo tremando di paura ma la voce sembrava familiare.
"K-Kageyam-ma?" dissi terrorizzato e scioccato al tempo stesso poiché si arrampicò agilmente sulla finestra ed entrò in camera mia come se nulla fosse.
Non era cosa da tutti i giorni vedere un Kageyama incazzato che piomba in camera tua quando ci è stato meno di un'ora prima.
"Non farti strane idee, Daichi mi ha rimproverato perché sono stato troppo freddo con te e non voglio che abbia un'idea sbagliata di me, quindi se vuoi posso rimanere a dormire qua." La serietà e la durezza con cui disse quella frase non mi diedero il tempo di farmi rimanere interdetto poiché rabbrividii all'istante. Non avrebbe mai cambiato tono, non con me.
"O-ok ma p-potevi bussare" dissi in preda al panico, stavo per arrossire ma subito aggiunsi:
"V-va bene v-vado a prendere le coperte" e mi voltai lasciandolo in camera mia.
Poco dopo realizzai e il battito del mio cuore accelerò.
'Non farti strane idee.' 'Che voleva dire? Strane idee in che senso? Lui non direbbe mai queste cose, insomma è palese che si riferisca a quelle idee no?' Lui moderava sempre il linguaggio e pensava 10 volte prima di parlare, ma allora a cosa si riferiva? Probabilmente ero troppo fissato, magari voleva a modo suo scherzare, però scherzare su che cosa? 'Adesso basta! Sei ridicolo!' dissi tra me e me.
Non appena entrai vidi Kageyama davanti al mio scaffale preferito, quello dei manga. Era di spalle, mi aveva sentito, non si era girato ugualmente.
"Toradora?" disse. Mi si sgranarono gli occhi e lo notò. Tra tutti i manga che poteva prendere, proprio quello.
Mi ricordava il periodo più brutto della mia vita e non sapevo ancora perché lo tenessi.
Non era un manga particolare, amavo l'amicizia di Taiga e Ryuji che poi si trasformò in altro.
Da bambino mi piaceva moltissimo, nel periodo dell'adolescenza invece mi faceva un po' schifo, come il sottoscritto che lo teneva in mano in quel momento.
"Posalo per favore, anzi c'è il cestino lì, buttalo." dissi freddo indicandogli il cestino alla destra della scrivania e non potei non notare il suo sguardo confuso.
"Perché?" era la prima volta che mi chiedeva qualcosa con tono curioso e ogni volta che mi faceva una domanda non sapevo mai se rispondere in modo educato o menefreghista, sceglievo sempre all'ultimo.
"Mi ricorda un periodo della mia vita che voglio assolutamente dimenticare." Risposi freddo, tutto d'un fiato.
Era vero, il primo volume me lo regalò mio padre nel periodo in cui mi disse che doveva trasferirsi nella sua nuova casa, con la sua nuova compagna.
"Ne vuoi parlare?" Come ho detto, non avevo il tempo di metabolizzare ciò che mi chiedeva o faceva poiché ero sempre impegnato a concentrarmi sul tono con cui diceva quelle cose per capire se fosse serio o meno. Potrò anche aver avuto la febbre in quel momento, ma per la prima volta il suo tono era curioso e pulito, con un po' di comprensione.
"Preferirei di no."
"Come vuoi" non mi ero reso conto che la nostra vicinanza era diminuita notevolmente, fino a quando non me lo trovai davanti.
Due pietre nere, due universi scuri e terrificanti come la morte, mi scrutavano dalla testa ai piedi. Non era uno dei suoi soliti sguardi, posso dire che quello era uno sguardo indagatore, come se stesse cercando qualcosa in me. Poi fece una cosa. Compì un gesto che mi mandò in estasi per qualche secondo e sembrò infinito.
Ero focalizzato nel guardarlo da non accorgermi che mi stesse abbracciando.
Ma non un abbraccio normale. Il suo abbraccio. Il primo.
Non era rassicurante, mi stringeva, sembrava quasi volesse soffocarmi ma credo che sia dovuto al fatto che non fosse abituato.
Avevo la testa poggiata sul suo petto, non mi guardava, stava in silenzio e continuava a tenere saldo l'abbraccio con la sua durezza, ma intanto duro, lo era già qualcos'altro.

𝐈𝐧𝐬𝐞𝐠𝐧𝐚𝐦𝐢 𝐚 𝐯𝐨𝐥𝐚𝐫𝐞🕊 |𝐤𝐚𝐠𝐞𝐡𝐢𝐧𝐚|Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora