Capitolo 1.1

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Il pranzo era una frittata spugnosa, verdura lessata e pane azzimo. A Delia faceva schifo gran parte del cibo della mensa, ma quel giorno avevano superato le sue aspettative. Alex era seduto di fronte a lei e aveva un sorriso che spuntava dalla pelle abbronzata come una collana d'avorio. Il colore della sua pelle era singolare per un Governante, la maggior parte di loro erano pallidi come miele, e i suoi ricci neri non aiutavano a farlo passare inosservato, quindi non si sorprese se poche sere prima Eva aveva chiesto di lui.

Dopo aver frugato nella tasca, posò una pesca sul suo vassoio.
Spalancò gli occhi. – Dove l'hai presa?
Alex le fece l'occhiolino. Lo sapeva benissimo dove l'aveva presa: era stato quel scapestrato di Bemus a dargliela.

Ripensava a quello che era successo poco prima di recarsi alla mensa. Erano bastati quei pochi minuti al Botanico per ricordarle che andava tutto bene. Il laghetto piatto era sempre lo stesso, gli alberi verdi pieni di vita lo attorniavano come il pubblico di un anfiteatro, le anatre se ne stavano in un angolo ad arruffarsi le piume. La natura era sempre la stessa, e in quel momento la morte di Teodora sembrava solo la tempesta che c'era stata una settimana prima: faceva paura, distruggeva quello che sembrava dover rimane incolume per sempre, e non le si poteva fuggire. Eppure, faceva parte dell'ordine delle cose e in un modo o nell'altro il giardino del Botanico l'aspettava per allenamento o, persino, per riaggiustarsi. Non aveva senso lasciarsi trascinare: si era promessa che sarebbe rimasta intatta come la quercia che l'aveva protetta dal sole con un'ombra affettuosa.

Studiò il frutto rosso sopra il suo vassoio. Alla fine, Platone non aveva scritto da nessuna parte di non mangiare le pesche. Lasciò che il gusto dolce le riempisse la bocca, e nonostante fosse probabilmente la cosa più buona che mettesse sotto i denti da giorni, svanì tutto in una sensazione di nausea. Ne lasciò ad Alex metà.

Mentre tornava a spostare la frittata con la forchetta, Delia si sentì addosso gli occhi di qualcuno e si accorse che Elena a pochi tavoli di distanza stava guardando nella loro direzione. Si chiese se per caso non pensasse che adesso in qualche modo le assomigliasse. Anche Alex le puntava gli occhi addosso, ma non disse nulla.

Sono più forte di te.

– Me ne andrò via – disse ad Alex. Ricordare quello che era successo ad Elena glielo fece confessare. Lui alzò un sopracciglio perplesso.

– Parteciperà alle lezioni ma non dormirò più all'Accademia.

– Non ho capito.

– I Produttori che hanno ucciso Teodora vogliono uccidere anche me.

– E il Consiglio ti vuole mandare via? – chiese alzando le sopracciglia.
Ignorò la sensazione di malumore che la invase e trattenne un sorriso che rischiava di essere troppo amaro.

– Paradossale, vero? Dicono che non vogliono mettere in pericolo le vite di altri studenti.

– E della tua?

Alzò le spalle. – Uno è meglio di molti, immagino.

Le bruciava ammetterlo, ma sapeva che il Consiglio aveva ragione. Non potevano permettere che qualcuno si avvicinasse tanto all'Accademia, soprattutto di notte. Era consapevole che l'allontanarla dalla scuola non sarebbe bastato ad acquietare gli animi violenti dei lavoratori, ma nel mentre che riuscivano ad acciuffare quei delinquenti era bene tenerli lontano dagli edifici pubblici.

Che scelta avevano avuto? Quello o... lasciarla morire. Doveva essere grata che si fossero scomodati tanto da prendere quella più difficile.

– Se il Consiglio ha deciso così, vuol dire che è giusto – sospirò infine Alex, che doveva essere giunto alle sue stesse conclusioni.

Era una frase che si aspettava e che lei stessa aveva detto solo pochi giorni prima a Teodora. Eppure, in quel momento sembrò gettarle addosso un velo rassegnato.

La cosa giusta, ripeté a mente.

Per fortuna dopo la pausa, visto che era lunedì, c'era la loro lezione preferita: oratoria applicata. Si sedettero tutti nell'enorme anfiteatro sul retro dell'Accademia, che a quell'ora aveva gli scalini completamente all'ombra. I quattro giudici, studenti dell'ultimo anno e vecchi compagni di Teodora, chiamarono a voce alta due partecipanti tra i volontari che si erano iscritti la settimana scorsa.

Uno era Bemus, e il ragazzo sicuro e il naso leggermente all'ingiù, si posizionò al centro dell'anfiteatro con un sorriso canzonatorio. L'altro si chiamava Dani, frequentava lo stesso corso di medicina di Delia e avevano parlato soprattutto per quel progetto sullo stomaco. Forse per il suo aspetto un po' sciatto, visto il viso olivastro poco curato e ricoperto da large macchie e i capelli lunghi e sporchi, era uno di quei studenti brillanti ma poco abili a farsi dei buoni alleati. Una di quelle persone che non avrebbe nemmeno notato, se non fosse stato per il progetto. Il pubblico non si risparmiava dal mostrare il suo appoggio o disappunto, con applausi o silenzio.

Bemus parlò della musica e come poteva essere composta utilizzando le stessi leggi della matematica. La tesina di Dani invece era sull'utilizzo di determinati farmaci anestetici che potevano portare ad ipnosi, come il tiopental sodico. Tuttavia, Dani non poteva competere con il fascino di Bemus, e la sua tesina, seppur esposta perfettamente, risultò troppo formale e distaccata, peggiorata dal fatto che gli crollava la voce perché non inspirava alle giuste pause.

Delia lanciava verso il pubblico sguardi affettati, cercando qualcosa che evidentemente non c'era e finì per guardare Alex, che partecipava al discorso come sempre, con il volto diretto verso gli oratori e le spalle e il corpo saldo come una delle statue del laghetto fuori della mensa.

Il teatro sembrava un'illustrazione immobile di miliardi di figure perfettamente uguali. Quella perfezione la calmò. Non c'erano emozioni visibili nei volti di quei ragazzi, tutti si attenevano al curriculum di ragionieri e filosofi. Se ci riuscivano loro, anche lei avrebbe potuto: essere lontano dai moti pericolosi del suo animo.

Si risvegliò con grandi applausi e arrossì per non essere riuscita a seguire nemmeno una parola. Qualcuno dal pubblico gridò: – Anche il sole sta dicendo chi ha vinto!

In mezzo all'arena Bemus aveva il volto illuminato, il limite dell'ombra ferma sotto le spalle. Il suo sorriso sfrontato sembrava riflettere la luce del sole come uno specchio. Dani invece era tutto all'ombra, le spalle un po' incurvate e come sempre un po' amareggiato. E forse quell'oscurità si addiceva al suo umore.

I giudici alzarono il cartello con il nome del vincitore. Su tutti e quattro era impresso il nome di Bemus.

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