Capitolo 7 - L'ASSASSINO DI TEODORA

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Altea la fece sedere al tavolo, con più premura del solito, brontolando che non avrebbe mai lasciato che andasse a dormire senza aver divorato un piatto intero di cibo.

– Scommetto che ti hanno lasciato morire di fame – farfugliava – Quei mascalzoni! Oh, chissà quante ne hai dovute passare a stomaco vuoto.

Per fortuna le risparmiò ogni altro discorso su quanto fosse stata in pensiero per lei, anche se per ben due volte si era fermata a guardarla e aveva sospirato, come se ancora non credesse fosse tornata, per poi tornare in sé e riprendere a strambellare con gli utensili da cucina.

Delia notò quanto non assomigliasse affatto ai Produttori che l'avevano rapita: il carattere gentile non faceva che amplificarsi con i suoi movimenti sgraziati e i discorsi superficiali sui vicini di casa, di cui la imbeveva non appena c'era troppo silenzio. La bontà doveva essere una caratteristica di tutte le balie, si ricordava bene infatti di come era sembrata preoccupata quella di Teodora, il giorno del suo funerale.

Seppur era già sazia dal cibo dell'Accademia e non fosse proprio di bocca buona, dovette trattenersi dal gettarsi sopra la zuppa ai fiori di zucca. Era il cibo più buono che avesse mai mangiato. Persino il pollo speziato era così soffice che si scioglieva sulla lingua. In quel momento la semplicità dell'Accademia si rivelò per quello che effettivamente era: cibo scadente e letti scomodi.

Mentre Altea lavava gli ultimi piatti rimasti della cena, sentì dalla finestra le voci di Damiano e Keelan, e quella di un altro, una voce sconosciuta, probabilmente un Guerriero mandato dal Consiglio per informarli degli ultimi ordini emessi e portare le nuove divise.

Mandò giù un grande sorso d'acqua e cercò di ignorarli, ma il gusto della cena non le diede il sollievo che sperava e la pesantezza degli eventi di quel giorno continuò a pesarle sulle spalle come un mantello di una taglia sbagliata. Senza capire bene quello che faceva, prese un tovagliolo e ci arrotolò una coscia e il petto del pollo arrostito, per poi infilarlo goffamente in tasca. Si sentì subito in colpa e chiese alla Balia se poteva portarsi via della carne e quasi le lussò una spalla da quanto gliela strinse mentre disse:– Ma certo, tesoro.

Nella stanza-sbaguzzino Delia continuava a essere pensierosa. Pensava a Platone e alla Polis. A loro doveva tutto. Persino dopo le guerre di trecento anni prima erano stati gli unici a stringere i denti e sopravvivere, quando intere nazioni erano cadute in ginocchio.
Non sapeva se tutti erano felici, come aveva supposto Iason, d'altronde quelle erano domande che si faceva Teodora, ma che importava?
Il sistema era perfetto, e funzionava, indipendentemente da quello che si credeva.

Eppure, quella nuova normativa la stava facendo impazzire. Si chiedeva come avrebbe potuto vivere senza il Botanico, il tavolo su cui riversava in modo così ordinato tutti i suoi pensieri e i suoi dubbi.

Strinse con la mano, in un gesto incosciente, il pollo che teneva nella tasca, ricordandosi ancora una volta quello che aveva detto ad Alex.

***

Quando aprì la finestra l'aria tiepida della notte la colpì direttamente in viso.

Iason non era in piedi davanti alla porta come avrebbe dovuto, ma seduto con la schiena appoggiata al muro e le gambe distese, sfinito. Per un momento dubitò che fosse sveglio, ma poi intravide i suoi occhi brillare nel buio.

– Sei ancora arrabbiato con me? – chiese con diffidenza.
Si prese un po' di secondi, come se fingesse di riflettere, e poi sospirò dalle narici, scuotendo la testa.
– Non sono arrabbiato.

Delia uscì dalla finestra e si calò dal davanzale, pensando quanto fosse strano come un giorno prima a stento gli avrebbe rivolto la parola. L'attacco dei Produttori doveva aver cambiato qualcosa.

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