Capitolo 7.4

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Delia non aveva molte occasioni per farsi bella. Una festa o un funerale era l'unico momento in cui le balie della prima e della seconda scuola si recassero all'Accademia per acconciare i capelli e concedere un filo di trucco alle studentesse. Mai troppo però, era solo una forma di rispetto per le sacralità. In fondo non dovevano guadagnarsi gli sguardi languidi di nessuno.

Di certo non avrebbe mai pensato di doversi fare bella per veder morire qualcuno. Se ne stava sulla scalinata di legno del tribunale, con i capelli intrecciati a corona e una tunica bianca, fermata sulle spalle da due gettoni dorati che fungevano da spille, con incise un auriga e due cavalli.

Il tribunale non era mai stato così pieno, non esisteva studente dell'Accademia che non avrebbe voluto assistere all'esecuzione di un Produttore. Ma Delia voleva essere ovunque tranne che lì. Quello non era un Produttore qualunque.

Era l'assassino di Teodora.

Seppur il colpo fosse stato organizzato da molti, quell'uomo era quello che aveva avuto in mano il pugnale, che aveva infilzato la pelle di sua sorella, che aveva visto il suo volto sconvolto prima di lasciarla cadere a terra.

La corsa alla piazza non appena lo aveva saputo era stata a per di fiato, ma non per la fatica, per l'angoscia. La terra sembrava spaccarsi sotto i suoi piedi a ogni passo. Era riuscita ad arrivare solo in tempo per vederla morire.

Prendi il mio posto, se riesci.

Delia passò tutte le dita sul pollice. Non aveva pianto allora e non l'avrebbe fatto adesso. Si limitò a guardare il resto del tribunale e a chiedersi se si potesse essere davvero felici per quello che stava per succedere. Poteva esserci un terremoto, un'esplosione. Non era nemmeno sicura che l'avrebbe sentito.

Il bicchiere con la cicuta si trovava su una mezza colonna, scentrata rispetto a dove avrebbe dovuto essere il processato. Pistorites diede un'occhiata al veleno di sfuggita prima di alzarsi e diede inizio alla sentenza, con il suo corpo sformato dall'età visibile dal lenzuolo della tunica.

Si era aspettata di vedere un uomo orribile, almeno tanto quanto quello che aveva commesso. Invece quello che si presentò fu un sempliciotto dalla pelle scura per l'abbronzatura, con gigantesche sopracciglia nere e, da come veniva spinto da due Guerrieri, sembrava star zoppicando. Gli occhi erano distanti, ma l'espressione del viso era chiaramente ansiosa. Lo seguivano, spinti da un Guerriero ciascuno, altri due uomini, anonimi almeno quanto lui.

– Sapete tutti cos'ha fatto quest'uomo.
La voce di Pistorites tuonò sulla pietra del tribunale. – Una giovane ragazza, promettente, pronta a diventare una Governante. Il suo sangue all'agorà. La gravità di questo sacrilegio.

Il silenzio della sala permise a Delia di concentrarsi sul battito del proprio cuore, estremamente accelerato. Voleva odiare quell'uomo, ma il corpo non rispondeva alla sua rabbia. Guardava solo quel volto carico d'ansia, cercando di capire il motivo dei suoi gesti. Non sembrava serbare odio, solo una grande confusione. Il suo gesto non poteva che essere dovuto all'ignoranza.

– Quello che i Produttori causano alla nostra Polis, non è altro che la prova concreta delle parole che ci vengono tramandate dal fondatore della nostra città, Platone. L'incapacità di controllare gli istinti, l'incontinenza, il carattere concupiscibile. Non ci sono parole per descrivere la fine che farebbe il nostro Stato se fosse nelle mani di tali persone.

Pistorites avanzò in mezzo alla sala, il corpo era più imbruttito per la geometria perfetta delle pareti e del marmo decorativo del pavimento. Per cui non seguirlo con lo sguardo era impossibile, così come era impossibile ignorare l'eco burbero della sua voce. – La paura, il caos, il rumore. Queste sono le cose di cui si nutre la gente come loro. Ancora una volta hanno tentato di sovvertire l'ordine delle cose, di dare un messaggio, un segnale. Di certo lo abbiamo ricevuto.

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