44. LA CACCIA DELLA BELVA

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Ada sedeva sul pavimento freddo e liscio della sua stanza bianca, le gambe incrociate e lo sguardo fisso sul muro di fronte a lei. I suoi capelli scuri contrastavano nettamente con il candore che la circondava, come una macchia d'inchiostro su un foglio immacolato. Indossava un abito bianco, quasi indistinguibile dall'ambiente circostante, che la faceva sembrare un fantasma fluttuante in quel vuoto sterile.

Le sue piccole mani giocherellavano distrattamente con un filo sciolto dell'orlo della veste, l'unico movimento in quella stasi innaturale. La stanza era un cubo perfetto, con tre finestre di vetro che interrompevano la monotonia delle pareti: una di fronte a lei e due ai lati. Attraverso quelle aperture, Ada poteva osservare altri piccoli micro ambienti paralleli alla sua prigione bianca.

Il suo sguardo vagò verso la finestra alla sua sinistra. Lì, in una cella identica alla sua, un ragazzo dai capelli bianchi si agitava freneticamente. Il suo braccio destro si contorceva e si trasformava sotto i suoi occhi, la pelle che si copriva di pelo folto fatto di pura oscurità, le dita che si allungavano in artigli affilati di colore nero. Era un arto di lupo attaccato a un corpo umano, una visione che avrebbe terrorizzato chiunque, ma Ada lo guardava con una calma inquietante, quasi ipnotica.

Il ragazzo ululava e si scagliava contro il vetro, i suoi occhi selvaggi e disperati incrociarono quelli di Ada per un istante, prima di tornare a concentrarsi sui suoi futili tentativi di fuga. Le sue unghie graffiarono la superficie liscia e produssero un suono stridente che riecheggiò nella stanza della semidea.

Voltando lentamente la testa, la giovane ragazzina spostò l'attenzione sulla finestra alla sua destra. Lì, un'altra scena surreale si svolgeva davanti ai suoi occhi. Una ragazza, forse poco più grande di lei, premeva il viso contro il vetro. I suoi occhi erano quelli di un serpente: pupille verticali in iridi che cambiavano colore come un caleidoscopio impazzito. La lingua biforcuta saettava tra le labbra mentre sibilava parole incomprensibili, il suo respiro appannava il vetro in cerchi concentrici che apparivano e scomparivano al ritmo della sua espirazione.

Ada osservava alcuni dei suoi compagni di prigionia con un misto di fascinazione e terrore. Una parte di lei voleva distogliere lo sguardo, nascondersi in un angolo e chiudere gli occhi. Ma un'altra parte, una che stava crescendo sempre di più dentro di lei, non poteva fare a meno di guardare, di assorbire ogni dettaglio di quelle visioni.

Il ragazzo-lupo e la ragazza-serpente continuavano nei loro tentativi disperati di fuga. Urlavano, graffiavano, picchiavano contro i vetri con una ferocia che Ada non riusciva a comprendere. Lei rimaneva immobile, silenziosa, come se temesse che il minimo movimento potesse attirare l'attenzione su di sé.

Le ore passarono, segnate solo dal cambiamento dell'intensità della luce che filtrava attraverso la finestra di fronte. Ada non sapeva se fosse giorno o notte e sicuramente ignorava la data. Il tempo sembrava non avere significato in quel luogo.

Non avrebbe potuto quantificare i giorni trascorsi lì neanche se avesse voluto.

Non riusciva nemmeno a ricordare il giorno in cui era stata portata in "orfanotrofio". Se si fosse basata solo sui suoi ricordi, avrebbe potuto facilmente dedurre di aver vissuto per sempre lì dentro, ma sapeva che non era quella la verità.

Un tempo lei era libera, aveva una famiglia nel mondo mortale.

Poi, improvvisamente, qualcosa cambiò, nel senso letterale.

La porta della cella del ragazzo-lupo si aprì, e figure in camice bianco entrarono. Ada non riusciva a distinguere i loro volti, ma vide come immobilizzarono il giovane e lo trascinarono via nonostante i suoi ululati di protesta. La porta si chiuse, e la cella rimase vuota, un vuoto che sembrava urlare più forte di qualsiasi grido.

Maschere Immortali: La ProfeziaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora